Eccoli qui gli STONE di Liverpool che arrivano finalmente al loro esordio. Diciamolo subito, il quartetto ha decisamente stemperato la carica rabbiosa dei primi singoli, cosa che non è necessariamente un male, ma francamente, almeno nella prima parte del disco è come vedere quattro teppistelli con lo smoking che vanno alla festa dell’oratorio: tutto suona davvero fin troppo curato e levigato e c’è una sensazione strana, come se i nostri fossero fuori posto con questi andamenti post britpop. Che gli STONE si sarebbero trasformati nel Robbie Williams post Take That non ce lo saremmo aspettati, ma, almeno fino a “Say It Out Loud”, è tutto liscio e con pochissimi sussulti in fase di arrangiamento.
Forse ricordo male, ma i ragazzi, in qualche intervista, si ergevano a paladini dei giovani smarriti, sarà, ma qui ad essere smarriti ci sembrano proprio loro: persi in arrangiamenti che più radiofonici e misurati non si può, gli STONE ci sembrano pronti giusto a diventare i nuovi DMA’s, cosa di cui non abbiamo alcun bisogno.
Poi nella seconda parte ecco un sussulto. “Save Me” è finalmente più “buttata lì”, più ruvida, perché altrimenti sarebbe diventata giusto un b-side degli Stereophonics, ma per fortuna si evita questa triste fine, poi ecco il giro alla Kasabian di “Never Gonna Die” in cui c’è un bel taglio epico e ancora sporco a dovere e ancora meglio si va con “Sold My Soul”, con questo parlato incalzante che si erge sulle chitarre. Questo era il disco che cercavamo, peccato ci siamo arrivati quasi alla fine. “Hotel” è spartana, oscura, minimale. Ma sono davvero lo stesso gruppo che abbiamo ascoltato 5-6 brani prima? Anche la chiusura acustica di “Save Yourself” mantiene più o meno il mood di questi brani che l’hanno preceduta, senza scadere troppo nello zuccheroso.
In soldoni gli STONE si riscattano e dopo una prima parte mollissima trovano il bandolo della matassa. Ripartite da qui ragazzi.
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