In “Champion” i Pom Poko riescono a rimanere sé stessi ed allo stesso tempo a maturare il proprio suono, dimostrando ancora una volta che una creatività libera e una forte coesione tra i musicisti sono già gli ingredienti necessari perché un’opera sia valida.
A chi ha amato i collage post-punk veloci e affollati dei primi due lavori “Champion” potrebbe non piacere del tutto, eppure è il miglior seguito che si ci potesse aspettare dal frenetico “Cheater”.
Nonostante all’apparenza sembrino canzoni poco impegnative e lontane dal voler essere serie, quelle dei norvegesi hanno sempre avuto momenti di cupa insicurezza sulle proprie posizioni e su quelle di un mondo a volte troppo ordinario e quadrato: basta prendere “Fumble”, traccia di chiusura del disco cantata impeccabilmente da Ragnhild Fangel, dove giornate riempite di lavori insoddisfacenti non fanno altro che svuotarle anziché dargli significato. In “Go”, uno dei quattro singoli scelti e uno dei migliori momenti non solo dell’album ma dell’intera discografia pompokiana, con velocità disumane e un riff fulmineo e colossale, la scarica del grido nel ritornello trae la propria efficacia dalla voglia di rompere la piattezza dei giorni tutti uguali, come preconfezionati. Vorrei tornare adolescente e sentirla a volume tanto alto da coprire i rimproveri dei miei genitori. L’unica soluzione, in “Go”, è quella di non arrendersi, ma andare e andare. E i Pom Poko lo fanno a modo loro, essendo sé stessi con tutte le proprie forze.
In questo desiderio di creare secondo le proprie regole non manca la descrizione di un momento in cui ognuno di noi si può riconoscere, ovvero lo scontro generazionale con i propri genitori, ed in generale con il mondo adulto, quel muro invalicabile tirato su dal tempo che però i Pom Poko, coerentemente con le proprie necessità, usano come carburante e non come ostacolo, ben riassunto dall’espressione che dà il titolo alla canzone: “You’re Not Helping”.
Riferendosi alla title track, Ragnhild Fangel spiega:
“E’ una canzone sulla crescita e sul non sentirsi più come dovessi conquistare il mondo. Lo stiamo veramente facendo solo per noi stessi. Se riusciamo ad essere così in una band che dura vent’anni, sarebbe grandioso. Non siamo campioni, ma allo stesso tempo lo siamo”.
Qui, oltre a dare un bel significato al titolo del progetto, si trova l’ingrediente segreto che ha portato alla band la meritata attenzione. È questa l’attitudine di libera serenità che ha anche spinto il quartetto a cambiare, non del tutto – non è un disco alla “Kid A” – ma a trovare nuovi registri più lontani dal punk o dall’art-rock e più vicini a composizioni indie lineari, morbide e coese; a dilatare i tempi, che qui non sempre sono frenetici e camaleontici. Pensiamo alle già citate “Champion” e “Fumble”, ma anche a “Druid, Fox and Dragon” e a “Bell”, quest’ultima soprattutto un bel pezzo interpretato molto bene dalla cantante, che non smette mai di incantarci con i suoi falsetti e con prestazioni sempre di alto livello. Non è un caso che in questo clima la band si sia per la prima volta autoprodotta, con risultati a dir poco soddisfacenti. Ovviamente il cuore del gruppo rimane, e anche in grande stile. “Go”, “My Family”, “Pile Of Wood”, “Big Life” sono tra i momenti più alti del disco. Quest’ultima poi è veramente ben costruita nei repentini cambi di tempo.
“Champion” nella sua essenza è un album che, controcorrente in un mondo che punta i riflettori solo su numeri e classifiche e nomi rumoreggianti, vuole rimettere al centro dell’attenzione la voglia naturale di creare qualcosa nelle proprie possibilità e particolarità, e soprattutto di esserne orgogliosi, “campioni”.