Seconda prova per il progetto di Rob Marshall, col nome di Humanist, che anche in questa circostanza ci omaggia con un numero consistente e illustre di partecipazioni le quali hanno impresso la loro significativa impronta a questo “On the Edge of a Lost and Lonely World”, uscito lo scorso lo scorso 29 luglio via Bella Union (EmilianaTorrini and The Colorist Orchestra, Explosions In The Sky, Marissa Nadler, Mercury Rev, Pom Poko).

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Il chitarrista degli Exit Calm ripercorre senza soluzione di continuità la precedente esperienza omonima orfana purtroppo dell’amico Mark Lanegan (con il quale ha lavorato negli album “Gargoyle” e “Sombeody’s Knocking”) che in quell’occasione aveva sicuramente posto le basi per un album collaborativo di eccellenza e che ben poteva avere un ruolo cardine in questo seguito.

In realtà, anche i fan del maestro Lanegan rimarranno assolutamente soddisfatti dall’opera seconda di Marshall, ciò in quanto all’interno dei tredici episodi e lungo i cinquantadue minuti si concentrano una miscellanea di momenti toccanti come in “Love You More” di Isobel Campbell, oscuri ed eterei come in quelli con l’aka Madame Butterfly (“Lonely Night”, “The Presence Of Haman”, “The End”) ovvero nostalgici come in “Dark Side Of Your Window” con James Allan dei Glasvegas.

A quattro anni dall’esordio Marshall ritrova la collaborazione del grandissimo Dave Gahan nell’intenso e profondo omaggio a Lanegan in “Brother”, che fa da contraltare alle note ruvide e taglienti dell’opener “The Beginning (My God)” con Carl Hancock Rux nonché a quelle cupe e angosciose di “This Holding Pattern” insieme a James Cox.

La mia testa è immersa in nuvole di pensieri e immaginazione, ma sono spinto a essere il più reale e autentico
possibile musicalmente, cercando di andare avanti e sfruttare tutto ciò che ho; non è mai stata davvero una scelta, ma l’unica cosa che ho mai sentito di poter fare: nuotare con la corrente, accettare il tuo destino, cavalcare le onde.
Sono una persona timida, ma sul palco la mia chitarra mi porta in un luogo di innata fiducia, quindi credo che sia lì che mi sento più a mio agio.


L’intero disco è un susseguirsi di melodie suntuose rese ancor di più eccelse dalle collaborazioni e, tra queste, quelle che hanno maggior pathos, a parer mio, sono con Ed Harcourt con il quale ha contribuito a disegnare i migliori momenti del full-length, come nella gioiosa “Happy” e, soprattutto, in “The Immortal” dove l’apice viene raggiunto in compagnia però di “Too Many Rivals” con Tim Smith degli Harp. Due momenti da pelle d’oca.