E’ tutt’altro che definito e squadrato il messaggio che esce da questa nuova produzione dei mitici Seefeel che, dopo più di 10 anni di oblio, riprendono alla grande ciò che avevamo con rimpianto generale lasciato, definendo i nuovi limiti del trasporto trascendentale in un EP corposo e allo stesso tempo ineffabile, che affascina e lascia sospesi per la sua eterea e ingannevole limitata durata.

Credit: Jonathan Wood

Figli di una generazione che nei primi 90 si era dedicata alla scoperta e dilatazione indotta dall’evoluzione dell’elettronica dolce e parallela al dancefloor, la formazione, ridotta a duo dei nostri facente capo a Mark Clifford e Sarah Peacock, si rimette a sviscerare le atmosfere a noi e loro care, in un corpo fortemente omogeneo, fatto di suoni dotati di una maggiore se possibile liquidità e sensorialità, come se la maturazione e l’assenza dai palchi avesse permesso di distillare i suoni in modo impercettibile ma dopo vari ascolti perfettamente riconoscibile, suoni che parlano di viaggi onirici, influenze arabeggianti, ritmi quando presenti narcolettici e voci from the outer space, la solita magistrale capacità di assumersi la responsabilità di tenere altissimo il livello dello scorrere dei brani con la ripetitività dei loop, che è un pò il paradigma del genere, la creazione di un’empatia non classica e diretta ma che lentamente si insinua nei pattern elettronici ripetuti ed insistenti, quel isolazionismo digitale che rende visibile all’ascoltatore una breccia, un’apertura esterna alla realtà percepita.

Situato dalle parti dei migliori Boards of Canada e l’Aphex Twin ambient, “Everything Squared” è in fondo una suite ipnotica ed ammaliante che esplora i confini del desiderio, un viaggio al confine tra il percepito e cio’ che ci sfugge, un mezzo possibile per ambire all’appagamento dei sensi dove tutto inizia e dove tutto finisce, come se l’inesorabile forma di ogni manifestazione rafforzasse ancor di più l’idea di musica esperienziale, priva di ogni materialità ma personale e vietata alla banalità, che nell’arco dei suoi 26 minuti ci apre alla possibilità di esplorare l’ignoto, qualcosa di bello ed inafferrabile fintanto che dura, fintanto che riusciamo forse a definirlo, ma che come ogni forma di caducità, finisce quando finisce l’esperienza, non a caso l’album termina con “End Of Here”.

Quanto di più necessario e vitale si possa ascoltare in quest’estate infinita, magnifiche inconsistenze di un flusso sonoro che devia dallo standard, aprendo le pericolose porte del desiderio e del sogno.