Morte o gloria? Nessuna delle due, in tutta sincerità. La verità è assai meno eroica e più modesta: i Palaye Royale, con questo loro quinto album dai suoni plasticosi e ultra-patinati, puntano semplicemente a ritagliarsi una piccola particina nella grande epopea del più profano (ma non per forza ignominioso) rock mainstream. Ve lo ricordate? Una volta riempiva i palinsesti di MTV, oggi è relegato alle frequenze di Virgin Radio.
Dietro il trucco, i tatuaggi, le linguacce e le creste di Remington Leith e compagni non c’è moltissimo: qualche buona canzone, certo, ma a prevalere è l’impressione di star ascoltando un disco registrato da tre poser per i quali l’attitudine rock si ferma al classico gesto delle corna da sfoderare davanti a una fotocamera. Sparso qua e là si avverte un sentore d’arrosto ma, nel complesso, l’album è avvolto in una coltre di fumo. Fate attenzione quindi, perché si respira aria pesante di banalità e già sentito.
I Palaye Royale ci propongono un glam rock molto moderno e orecchiabile che però non va mai oltre una manciata di ritornelli e motivetti canticchiabili. Alcuni di questi sono indubbiamente godibili ma, sollevando il velo di fronzoli e abbellimenti aggiunti in fase di produzione, si resta con un palmo di brani artefatti e sterili, privi di quell’anima che non può mai mancare quando si coltivano ambizioni importanti.
Chissà, probabilmente “Death Or Glory” permetterà ai Palaye Royale di imporsi in maniera definitiva all’attenzione del grande pubblico. Personalmente però non ho apprezzato quasi nulla di questo lavoro. L’unica cosa che mi ha davvero colpito è l’insipienza di un disco in cui la matrice glam rock è così blanda da ridursi a un mero spettro: un’ombra “nobile” che aleggia su canzoni costruite a tavolino col solo obiettivo di fare il verso a Måneskin, Yungblud e persino ai terrificanti Imagine Dragons. È la solita solfa: il classico pop radio-friendly con le chitarre elettriche che può funzionare solo negli spot per le macchine, le bibite, i marchi di fast fashion e le compagnie telefoniche. Niente di più, niente di meno.
In alcune canzoni si percepisce il talento nascosto dei Palaye Royale che, essendo musicisti professionisti ed esperti, conoscono molto bene le diverse sfaccettature del rock, anche nelle forme più crude e genuine del blues, del garage e del punk (“Mister Devil”, “Addicted To The Wicked & Twisted”, la stonesiana “Been Too Long”). Ma non bastano timidi lampi di qualità a sollevare le sorti di un album francamente modesto e dimenticabile dove, tra le altre cose, troviamo persino uno sfacciatissimo plagio del ritornello di “All The Young Dudes” dei Mott The Hoople infilato a forza come special di “Dark Side Of The Silver Spoon” – un pezzo che, non fosse per la scopiazzatura, in fin dei conti sarebbe risultato anche abbastanza interessante. Parlo di vero e proprio plagio e non di semplice citazione perché, fra i ben sette (!) autori di questa traccia di appena tre minuti, non è incluso il nome di colui che firmò l’immortale hit datata 1972, ovvero la buonanima di David Bowie.