Chi se lo aspettava più un nuovo album dei Mercury Rev, che, negli ultimi anni, hanno un pò temporeggiato e vissuto di rendita, per quel poco che hanno messo sul piatto in materia di esposizione.
Si ricorda con piacere un live (credo l’ultimo nel nostro paese) in un settembre già autunno per la collocazione indoor, parliamo del 2018, e il collettivo americano era in giro, appunto, per celebrare il loro disco più significativo, quel capolavoro evergreen che è “Deserter’s song”.
Venendo al disco, che, di fatto, è il primo nuovo lavoro in nove anni a questa parte: andando ad escludere l’operazione di “The delta sweetie revisited” uscita nel 2019, ovvero un restyling con tanto di parterre nutrissimo di campionesse della canzone tutte insieme, in un album, con il quale, i nostri, sono andati a recuperare e restaurare il secondo capitolo della discografia di Bobbie Gentry.
Quindi andando a ritroso, bisogna riavvolgere il nastro fino al 2015 con “The Light In You” uscito per Bella Union.
“Born Horses” segna, quindi, il ritorno di uno dei collettivi più apprezzati, che ha trovato il suo climax sul finire degli anni novanta, con il succitato album principe, per colonizzare gli anni zero a suon di punto di riferimento.
Ancora per Bella Union, la nuova raccolta ci riporta la band di Jonathan Donahue sempre nel settore delle proposte da maneggiare con cura e piacere.
Privo di dogmi o allori da mostrare, si nutre di una certa libertà di fondo, come sempre del resto è stato lungo una dilatata carriera.
Anticipato da due ballate, ben lontane dal concetto di singolo, entrambe molto teatrali, la prima “Patterns”, piccolo racconto sussurrato, etereo e minimale, quanto la seconda canzone “Ancient Love”.
Il disco si apre con “Mood Swings”, che già dal titolo anticipa l’andamento del brano, incalzante e raffinato con un arrangiamento di fiati da fuoriclasse assoluti e non poteva esserci inizio migliore per una raccolta elegante come questo ritorno. “Your Hammer, my heart” continua il viaggio nella canzone d’autore in vestito da sera; ma è tutto il disco, che vive di una sorta di concept, risultando molto omogeneo nel susseguirsi delle tracce, quasi pop nel ritornello di “A Bird Of No Address” e rarefatto nel mood della convincente title track. Bpm che aumentano sulla chiusura affidata a “There’s Always Been a Bird in me”, sorta di messa laica e Demme al centro del pulpito a declamare i suoi stati d’animo, cupi e oscuri.
Un disco coerente dall’inizio alla fine, all’interno di un percorso inattaccabile, ancora una volta per una vita artistica diversa dal celebre passato, un album che riporta i Mercury Rev nel gotha dei signori della canzone, musica spirituale, onirica e sognante e particolarmente ispirata.