Donato Zoppo non ha certo bisogno di presentazioni: giornalista, conduttore radiofonico, scrittore e sicuramente tralasciamo ancora qualcosa. La sua penna di qualità si è soffermata su artisti come King Crimson, Area, PFM, Lucio Battisti, Genesis e molti altri. Ad aprile, per Aliberti Compagnia Editoriale è uscito “CSI. E’ stato un tempo il mondo”, che si sofferma sulla band di Ferretti e Zamboni post CCCP e in particolare sul primo album “Ko De Mondo”. Il libro ci è piaciuto moltissimo, tanta era la voglia di approfondire il discorso e Donato si è prestato con molta gentilezza a scambiare due chiacchiere con noi…
Ciao Donato, buongiorno. Da dove ci rispondi, dove ti trovi in questo momento?
Sono da poco tornato da un rigenerante viaggio alle Azzorre, precisamente a São Miguel, la principale di queste isole nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico. Dunque rinfrancato e con nuova ispirazione ti rispondo da casa, nel mio studio, postazione eremitica perfetta.
Il tuo libro “CSI È stato un tempo il mondo” giunge con grande (e inconsapevole) tempismo in un momento storico in cui la sigla precedente CCCP- Fedeli alla linea è tornata in auge con una serie di concerti da tutto esaurito. Si tratta più di un inevitabile “effetto nostalgia” o credi che queste canzoni, queste musiche, questi messaggi siano in grado ancora di catturare emozioni autentiche? O forse banalmente era ora che si tornasse a parlare di questi grandi artisti più per le loro opere che non per questioni extramusicali?
Il libro sui CSI, sul loro debutto “Ko de mondo“, è partito da lontano, da oltre dieci anni fa, poi l’ho chiuso in un cassetto che ho riaperto l’anno scorso dopo un incontro con Gianni Maroccolo e Francesco Magnelli. Parallelamente si stavano ricostituendo i CCCP e le due vicende si sono incrociate, credo in modo inevitabile, anche se almeno per me inaspettato.
Nel loro rispettivo svolgersi, entrambe hanno avuto un bel successo: il mio libro ha ottenuto un responso gratificante perché ha colmato un vuoto e ha ricostruito un percorso musicale emozionante e amato; i CCCP hanno chiuso un cerchio intercettando anche un significativo interesse giovanile, come ha notato chi ha partecipato ai loro concerti estivi. In ambedue i casi, il fattore emozione e il fattore autenticità, come tu stesso sottolinei, sono stati decisivi, determinanti.
Credo che l’effetto nostalgia abbia avuto un peso notevole proprio come il desiderio di scoprire una musicalità passata ma ancora piena di pathos, di elettricità, di onestà, di creatività.
Si avverte, ed è stato dichiarato dagli stessi protagonisti, una continuità tra l’ultimo album dei CCCP e il primo a nome C.S.I. che tu hai ottimamente omaggiato nel trentennale dalla sua uscita. Ma tu da ascoltatore appassionato avevi la percezione che in realtà stava nascendo in effetti un’entità differente con l’uscita di “Ko de mondo”, a livello non solo di suono ma proprio di attitudine?
Intanto è importante sottolineare la comunanza tra l’ultimo disco dei CCCP “Epica Etica Etnica Pathos” e il primo disco dei CSI “Ko de mondo”. Tra i due ci sono quattro anni di distanza ma in buona sostanza la formazione era la stessa, ossia il nucleo creativo Ferretti/Zamboni/Maroccolo/Magnelli/Canali. In comune i due dischi avevano anche il modus operandi: entrambi nacquero in una casa, in contrasto con le modalità schematiche e costrittive degli studi di registrazione, assecondando un’ispirazione libera e incontrollata, per nulla condizionata dal risultato finale.
Dal punto di vista contenutistico, tematico e sonoro, si trattava tuttavia di due lavori a mio avviso molto diversi, anche perché i musicisti del blocco fiorentino, gli ex Litfiba, nel primo erano molto meno coinvolti rispetto al secondo, nel quale hanno partecipato con una maggiore presenza alla definizione dell’identità sonora CSI.
Quando il debutto del Consorzio vide la luce nel gennaio del 1994 si ebbe la sensazione netta che la storia dei CCCP era ormai chiusa, che quella dei Litfiba storici era davvero archiviata, e che un nuovo fenomeno era nato, tra l’altro in maniera originale e sorprendente.
Hai raccolto davvero tante preziose testimonianze dirette, a me è sempre sembrato un “miracolo” che personalità così differenti, per background e inclinazioni, potessero andare d’accordo. Tu che idea ti sei fatto? È prevalsa la voglia di rimettersi in gioco, di unire competenze e talenti o appunto una serie di congiunture astrali positive ha favorito l’unione di grandi artisti come Ferretti, Zamboni, Maroccolo, Magnelli e compagnia?
Ciò che deve accadere, accade, potrei dire liquidando la faccenda con una citazione importante. Tuttavia il senso profondo dei CSI è stato proprio nella giustapposizione tra varie personalità estremamente diverse, un insieme di figure potenzialmente conflittuali che però hanno avuto la sensibilità, l’intelligenza e l’audacia di affidare alla musica ogni tensione, creando un linguaggio musicale che avrebbe caratterizzato in modo prepotente i nostri anni ’90.
Non credo molto alle congiunzioni astrali nel mondo dell’arte e della musica, credo invece nella forza di volontà, nell’ispirazione e nella determinazione, fattori ineludibili per la creazione artistica. Dico questo perché secondo me i CSI, per un tempo forse troppo breve e con un numero limitato di album, hanno fortemente voluto realizzare una musica diversa e inedita. Hanno immediatamente compreso che quel gruppo avrebbe potuto essere una polveriera e hanno dirottato sulla musica ogni possibile scontro.
Credo che l’unico precedente affine sia stato quello degli Area oltre vent’anni prima: non è un caso che abbia accostato spesso Giorgio Canali a Paolo Tofani, entrambi elementi di disturbo che fecero delle loro modalità spigolose e critiche un codice espressivo.
Mi ha sempre affascinato molto la scelta del neonato gruppo di andare a registrare in un casolare ai confini del mondo. E dal tuo libro emerge nel migliore dei modi come siano stati in effetti decisivi il luogo e l’atmosfera per la riuscita dell’opera prima dei C.S.I. Col senno di poi credi che anche registrando in un normale studio si sarebbe catturata tanta magia?
Non credo, anzi sono sicuro che in uno studio di registrazione sarebbe nato un disco completamente diverso. Un’opera d’arte non è solo un esito ma anche un processo nel quale contano le premesse e le motivazioni, e “Ko de mondo” è il risultato naturale di un itinerario che partì da Villa Pirondini di “Epica” dei CCCP per arrivare al libero flusso creativo della casa in Bretagna.
Grazie a quell’atmosfera, a quel clima intimo, alla possibilità di suonare e registrare in ogni momento della giornata, alla condivisione dei momenti anche extramusicali, dunque alla creazione di uno spazio di esperienza umana, i CSI ottennero quel tipo di brani: l’ascolto attento trent’anni dopo ce lo conferma.
Ogni componente, ogni persona coinvolta nella realizzazione del disco, sembra avere avuto la stessa importanza, un ruolo specifico ai fini del risultato; a me ha colpito in particolare il modus operandi di Giovanni Lindo Ferretti, che forse più di tutti ha dovuto reinventarsi proprio a livello di scrittura (e in parte immagine). Quanto secondo te hanno inciso i suoi testi in questo nuovo corso musicale? Ti saresti aspettato questa sua evoluzione come autore, seppure ci fossero state delle avvisaglie nell’ultimo album dei CCCP?
Giovanni è una figura affascinante, seducente, non solo per il suo isolamento artistico ma anche per l’evoluzione che ha affrontato, e che partì proprio da “Ko de mondo”. La costruzione della nuova identità dei CSI passò anche attraverso i suoi testi e la sua vocalità, tanto diversi da quelli dei CCCP: l’approccio sloganistico, provocatorio, unito alla vocalità urlata e secca vennero meno, sostituiti da una scrittura che procedeva per accumulo di immagini, ricordi, sensazioni, evocazioni, affidata a una voce salmodiante, mistica, arcaica.
La sua mutazione ha stupito larga parte del pubblico, ma col senno di poi, ad averlo ascoltato e letto con attenzione, credo che potesse essere prevedibile un certo percorso. La componente punk dissacrante e contraddittoria, la provenienza montanara, i retaggi religiosi, la dedizione alla famiglia e all’attività equestre dei suoi avi, tutto ciò non poteva non dare vita a una autentica rigenerazione. Anche qui però ci tengo a dire che se non ci fosse stato l’ultimo disco dei CCCP, non ci sarebbe stato il Ferretti bretone del 1993/4.
Vengo alle tue emozioni personali… cosa provasti all’ascolto di “Ko de mondo”? Avevi la sensazione di trovarti davanti a un album epocale, l’inizio di qualcosa di rivoluzionario per la musica italiana? (riferendomi anche al florilegio di artisti e gruppi nati ed esplosi nello stesso periodo, spesso in stretta vicinanza con i CSI)?
Sai, a volte un ascolto in tempo reale si caratterizza per una prevalenza emotiva, tant’è che solo anni dopo la parte razionale ti porta a comprendere l’importanza storica dell’opera.
Almeno per me fu così nei primi mesi del 1994: conoscevo bene i Litfiba e li apprezzavo, un po’ meno i CCCP, di lì a poco avrei scoperto Marlene, Afterhours e Timoria e con il passare del tempo ebbi modo di capire la netta superiorità dei CSI.
“Linea Gotica” e “Tabula Rasa Elettrificata“, ma anche i gioielli “In quiete” e “La terra, la guerra, una questione privata”, ci avrebbero confermato tutto ciò. Ossia che i CSI avevano una marcia in più, dovuta anche alle rispettive estrazioni musicali, alle diverse provenienze geografiche, anche alle diversità anagrafiche. Ancora una volta il segreto è nella combinazione delle diversità: il potere dell’ibridazione.
Queste canzoni a mio avviso hanno tutte un’aura di “grandezza”, vuoi per il pathos, per i significati o per la loro determinata struttura, ma c’è un episodio (o più di uno) al quale sei particolarmente legato? Qualcosa che ti ha sorpreso, stordito, ammaliato, sin dal primo ascolto?
Ho ricordi un po’ annebbiati ma all’epoca esisteva un programma di musica dal vivo su Tele+, condotto da alcuni giornalisti tra cui se non vado errato un giovane Fabio Caressa, oggi credo commentatore sportivo. Ebbene in quel programma ricordo i CSI con “Memorie di una testa tagliata”. Fu uno shock per la potenza visiva, il clima di tensione, la densità del racconto in musica di una guerra che si stava svolgendo a pochi chilometri da noi.
Nello stesso periodo come tanti vidi “In quiete” a Videomusic: ricordo ancora la delicata potenza delle versioni quasi unplugged di “In viaggio” e “Fuochi nella notte”.
Ebbene, ricostruire questi pezzi trent’anni dopo con l’aiuto di tutti i protagonisti mi ha fatto vedere il cuore pulsante delle canzoni, i loro tessuti, l’ossatura, insomma l’organismo. Penso sia un piccolo grande privilegio di chi fa questo mestiere…
Passo ora a una domanda “tecnica” da autore a autore… Nell’introduzione affermi che covavi da tempo l’idea di un libro su “Ko de mondo”; cosa ti aveva impedito di portare a termine prima la stesura del libro? Non erano ancora maturi i tempi, mancava la scintilla giusta o semplicemente eri impegnato su altri fronti letterari?
L’idea iniziale risale alla fine del 2012, quando contattai Zamboni via mail, poi Maroccolo e Magnelli, e li vidi dal vivo a Colle Val D’Elsa per lo spettacolo di sonorizzazione del “Fantasma dell’opera”. Raccolsi una timida, incuriosita apertura, ma era necessario per il bene del libro sentire anche Ferretti, che invece non era disponibile.
Contestualmente cominciai a lavorare ad altre proposte editoriali e archiviai quella sui CSI, alla quale però ho sempre continuato a pensare, tant’è che quando ho avuto l’occasione di incontrare dal vivo, lo scorso anno, prima Gianni poi Francesco e Ginevra, tutto si è rimesso in moto.
Credo di aver fatto bene a non insistere all’epoca, i miei tempi e i loro tempi non erano ancora maturi, molto semplicemente non c’erano ancora le condizioni per lo “stato di grazia”, per citare Giovanni, dell’anno 2023.
Le cose belle sono grandi, dunque vengono da lontano e si muovono lentamente. Così deve essere, così è stato.
Un’ultima domanda, anche se avrei tante curiosità da soddisfare… Quale peso specifico hanno Ferretti e soci (ma limitiamoci ai CSI, visto che sono l’oggetto dell’intervista) nella storia del rock italiano?
Secondo te c’è stato prima di loro un gruppo seppur diverso, di cui si possono considerare eredi? (non vale rispondere i CCCP!)
E credi che qualcuno sia riuscito a raccogliere a sua volta in seguito l’eredità dei CSI, o semplicemente che allo stato attuale ci sia qualcuno che li ricordi? (A me ad esempio aveva colpito molto l’esordio di Vasco Brondi a nome Le luci della centrale elettrica)
Come ti dicevo prima credo che gli Area, non tanto per i contenuti musicali quanto per l’unione di personalità differenti, possano rappresentare un precedente, benchè diverso per tempi, temi, suoni, provenienze e direzioni.
Una delle cose più intriganti della migliore musica italiana è l’unicità di tanti gruppi, penso agli stessi Litfiba di “17 Re”, agli Afterhours degli episodi migliori, ma anche a band che citiamo troppo poco come gli Scisma, i Kina, gli Uzeda, gli Yo Yo Mundi, oppure i giganti prog anni ’70 se vogliamo andare più indietro.
Ognuno dei nomi citati aveva una personalità ben definita, e i CSI nel rock italiano degli ultimi trent’anni a mio avviso simboleggiano il primato della musica, la prepotente forza delle note. Per lo stesso motivo fatico a trovare eredi dei CSI, mentre numerosi potrebbero essere gli emuli, infatti in quasi vent’anni di radio ne ho trasmessi davvero tanti.