Marlene Kuntz, gli anni Novanta, “Catartica”, i nove sublimi versi di “Lieve”, quel vento di sonorità distorte, rumorose, energiche, martellanti e spigolose che proviene dalle lande soniche, alternative e noise-rock d’oltre-oceano, trasportandoci, tutti, in una tumultuosa e liberatoria festa del cazzo.
Una festa che, oggi, nel 2024, a trent’anni dall’uscita di questo disco ormai leggendario, si rafforza del dolore atroce della perdita, dei ricordi indelebili del nostro passato, della consapevolezza che tutto è cambiato attorno a noi, molte cose si sono rotte, altre si sono perse, ma noi, in fondo, possiamo contare, ancora, sulla stessa determinazione obliqua, sghemba, pressante, stropicciata, ribelle, irregolare, alcolica e romanticamente autentica; l’unica forza capace di opporsi e di contrastare quelle aberranti figure immobili, inutili, vecchie e gommose che continuano, ieri come oggi, a rendere il mondo un luogo decisamente peggiore.
Tutto ciò è più forte di qualsiasi rimpianto e di qualsiasi nostalgia, non abbiamo il tempo di perderci, beatamente, nel passato, perché il presente parla, quotidianamente, la lingua della guerra e dell’odio; perché i forti prevaricano e abusano dei più deboli; perché il controllo delle informazioni e delle notizie è nelle mani dei pochi, i quali, fregandosene della maggioranza, fanno solamente i loro sporchi interessi e quelli dei loro amici e degli amici degli amici.
Questa è l’atmosfera che si respira al Monk, a Roma, in Italia, nei giorni in cui Israele invade il Libano, praticamente ad un anno esatto dalla carneficina di Hamas del 7 ottobre del 2023, con gli occhi, le menti ed i cuori pieni delle immagini del susseguente carnaio di Gaza.
“Catartica” esplode, musicalmente parlando, per liberarci dal Male, da qualsiasi Male, da ogni Male, per condurci nella terra promessa delle trame acide, lisergiche e narcolettiche; nella terra promessa dei feedback, dei riff, delle pulsioni e delle contaminazioni; nella terra promessa dei Sonic Youth e dei C.S.I.; la terra promessa chiamata Marlene, chiamata fragore, chiamata Luca Bergia; la terra promessa bagnata da onde e onde di parole tuonanti, dolci, amare, letali, ma, anche e soprattutto, cariche di speranza, mentre, nel frattempo, le fulgenti chitarre di “Nuotando Nell’Aria” ci rendono piacevole persino la degradante disperazione che accompagna i distacchi e le separazioni da quelli che sono, da quelli che restano, i nostri affetti più cari.
I Marlene Kuntz, dunque, infiammano il pubblico del Monk, senza troppi giri di parole, senza strafare, usando, al meglio, il loro rock crudo e abrasivo, la sua struggente e infiammabile bellezza, una bellezza capace di bruciare tutto: ogni ansia, ogni timore, ogni rancore, ogni inutile e scontata certezza, qualsiasi luogo comune, qualsiasi scusa, promessa o pretesto. Tutto, eccetto la poesia di queste canzoni.