Quelle di Steven Soderbergh continuano a essere “‘lezioni di amministrazione (e somministrazione) del Cinema’. E’ questo che lo rende sostanzialmente il regista americano più antipatico in circolazione: il paradosso di Soderbergh è quello di incarnare con l’intera sua opera probabilmente nient’altro di più che la definizione attuata perfetta di “‘Stile’, e allo stesso tempo di rappresentare in sè l’idea maggiormente opposta e lontana possibile da quella di “‘Autore’ (da qui la tentazione sempre, lo confessiamo, abbastanza forte di utilizzare il suo cinema come attrezzo scardinante e arma d’assalto contro i baluardi di certe concezioni da polverosa critica d’arte, a cui rispondere appunto col cinismo scintillante dei “‘bluff’ a orologeria dei vari “Ocean’s”, per fare un esempio). L’operazione “Che” da questo punto di vista è assolutamente il vertice massimo del Sistema-Soderbergh, una vetta che ““ come prima d’ora era accaduto solo in “Traffic” ““ ne delinea le coordinate celebrandone l’inattaccabilità , e non mostrando l’intento (non si sa mai quanto davvero sincero) di auto-smontarle messo in atto almeno in apparenza in film come “Full Frontal” o il secondo imprescindibile “Ocean’s”. In sostanza il progetto originario prevedeva un’opera sui giorni in Bolivia del Che, con sceneggiatura a cui ha lavorato addirittura nientemeno che Terrence Malick. Soderbergh decide di aggiungerci l’avventura cubana del Comandante, nonchè la trasferta americana per il discorso alla sede dell’ONU. A quel punto il regista e lo sceneggiatore Peter Buchman sono dell’idea di avere abbastanza materiale in più per poter organizzare un primo film, che preceda la pellicola sul fallimento terminale della “Guerrilla” di Guevara in Bolivia. Così, ecco qua le due ore di questo “The Argentiner”. Si tratta di un procedimento tipico dell’ottica soderberghiana di vedere il (suo) Cinema, perennemente sdoppiato in film coscienziosamente “‘mainstream’ e corrispettivi esibitamente “‘sperimentali’ (in questo caso alla seconda tipologia appartiene “Guerrilla”, in sala in Italia a maggio, che è probabilmente il più bel film di Steven Soderbergh, vero manuale di tecniche di guerriglia digitale, girato interamente utilizzando il prototipo di una leggerissima cinepresa di ultima generazione, la RED, il cui errare nell’impervio territorio boliviano va a coincidere in una bellissima incarnazione di sguardi finale per un solo, definitivo istante con l’errare parallelo e sventurato del Che in terra straniera ““ e dove ancora una volta però l’entusiasmo può e deve essere smorzato dalla sensazione di totale e compiaciuta consapevolezza dei funzionamenti del meccanismo ribadita da Soderbergh e da queste sue “‘bubbles’ di Cinema perfettamente soppesate e dimostrate). Messo così, “Che ““ L’Argentino” vede l’oliato macchinario di Soderbergh macinare la figura di Ernesto Che Guevara per restituircela in pezzi di (catena di) montaggio: dove il film riesce davvero a rappresentare la statura del personaggio, la sua irrequietezza, le sue ambizioni, ma anche quella romantica aura malinconica di questo corpo pesante e sfinito dalle lunghe battaglie, è nel frammento newyorkese, girato in un bianco e nero sporco e sgranatissimo memore del trattamento di “Good Night and Good Luck” del compare George Clooney, nell’intento di rendere nel nervosismo della messinscena (movimenti spezzati e repentini della mdp con continui cambi di focale e di profondità di campo, ruffianerie sparse nel trattamento dell’audio, montaggio schizofrenico dei dettagli) la tensione nell’animo del Ministro dell’Industria di Cuba nella giornata in cui ebbe l’ardire di pronunciare il suo storico discorso all’assemblea delle Nazioni Unite contro l’imperialismo nordamericano in America Latina. Sono gli unici momenti in cui a Benicio Del Toro è concesso di lavorare sul suo personaggio attraverso la grande espressività della sua imponente ma fragilissima fisicità : nel resto dell’opera (e così anche in “Guerrilla”), ovvero nei vari frammenti ““ proposti in montaggio alternato al viaggio a New York ““ di rievocazione della campagna di liberazione/occupazione di Cuba, il suo Che sarà infatti perennemente frustrato dai campi lunghi di sfiancante immobilità (ci verrebbe quasi da citare il Sam Fuller de “L’Urlo Della Battaglia”, se non fosse che Soderbergh ci è troppo antipatico per fargli il complimento del paragone…) con cui il regista risolve le sequenze di addestramento dei ribelli nella giungla, e le conseguenti scene di battaglia. Appostando la sua cinepresa come un guerrigliero in attesa di far scattare la propria imboscata, Soderbergh sembra infatti rinunciare in tutto e per tutto al facile pathos popolare della Rivoluzione, risolvendo la leggendaria presa di Santa Clara come una ultrascarna sequela di scaramucce e brevi sparatorie lungo piccoli avamposti e timide barricate per le strade della città , e riducendo all’osso l’impresa dell’avanzata dell’esercito del Che per i paesi di Cuba mostrati come spettrali villaggi diroccati e disabitati dove non più di una decina di contadini accolgono festanti i ribelli battendo loro le mani. D’altra parte la guerriglia è in sè una tattica che mira al sabotaggio, all’appostamento nascosto, al tranello, e rifugge dalle grandi battaglie e dai sontuosi attacchi frontali. La Rivoluzione, insomma, sembra dirci “L’Argentino”, non è uno Spettacolo di Gala. |
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