Questa è una strada per il cuore.
Una strada che conduce dritta agli anni Novanta, ad una stagione irripetibile e determinante per il rock italiano, ad una stagione nella quale The Carnival Of Fools diedero voce, assieme ad altri, ad una generazione smaniosa ed affamata; una generazione che, rifiutando gli odiosi e stantii cliché del pop tricolore, tentò, disperatamente, di mantenersi a galla, nel mare di frasi fatti, di luoghi comuni, di suoni raffermi e ovvietà andate a male, tanto care ai decrepiti rottami che, da decenni, ammorbavano l’aria con i loro aridi, lugubri e funesti binomi cuore-amore.
All’inizio degli anni Novanta, finalmente, anche nelle città italiane, si respira un’atmosfera diversa, piccoli e grandi crocevia alternative-rock offrono i propri spazi ad artisti e gruppi che tentano, ognuno a proprio modo, di mettere a nudo quelle che sono le nevrosi, le fragilità e le ossessioni delle persone comuni, senza più occultarle dietro una rancida moltitudine di sorrisi gommosi e facce di plastica.
Il vuoto è sempre stato reale, ma era giunto il momento di affrontarlo e di riscattarsi, sia dal ristretto e bellicoso dogmatismo ideologico che aveva caratterizzato, in Italia, gli anni Settanta, sia dalle copertine patinate, dalle stelline luccicanti e dalle festose messinscena sanremesi degli anni Ottanta.
Questo è il contesto nel quale viene pubblicato il primo disco dei Carnival Of Fools, mentre si fa sempre più pressante l’urgenza di trasmettere e condividere le proprie emozioni e i propri stati d’animo, anche quelli più distorti e disturbati, soprattutto se possono essere incastonati nei versi di una poesia o trasformarti nelle trame crude, appassionate, pulsanti, elettriche, paranoiche e blueseggianti di una canzone rock. Questo è il seme dal quale germoglia “Religious Folk”, aprendo, finalmente, alla musica italiana, un percorso di suoni, di echi, di effetti e di atmosfere acide, schiette, idilliache e darkeggianti, senza, però, smarrire la propria peculiare sensibilità, la propria storia, la propria cultura e il proprio passato.
Fondamentale e preziosa, dunque, è questa raccolta, che, in trenta brani, ci permette di rivivere il sapore di quegli anni, la loro drammaticità e il loro romanticismo, senza mai devastarne l’anima e, soprattutto, senza inutili ingigantimenti e sciocche esaltazioni nostalgiche, magari tentando di conciliarne l’essenza con quelle che sono le mode e gli schemi attuali. Non ne avevamo bisogno allora e non ne abbiamo bisogno adesso di queste commedie surreali; abbiamo, invece, necessità di spezzare la routine, nonché di spegnere il rimorso e il risentimento che proviamo verso noi stessi, verso le passioni che abbiamo tralasciato e verso le strade che abbiamo, vuoi per timore, vuoi per opportunismo, abbandonato. Non so se saremo in grado di ritrovarle, ma queste canzoni potrebbero assisterci, almeno, a recuperare la sensibilità che ci aiuterebbe a riuscirci, ovvero la capacità di ascoltare gli altri e di renderci conto di quello che accade attorno a noi.
I pazzi sono quelli che espongono i propri fallimenti, quelli che recepiscono il fascino del buio, delle voci e dei rumori della notte, quelli che cambiano le battute di quella che, altrimenti, continuerebbe ad essere solamente una ipocrita farsa, una rappresentazione virtuale dell’esistenza, nella quale nessuno mostra davvero quello che pensa, quello che vuole, quello che cerca, quello che gli batte nel cuore.
Pensate che tutto questo ci farà a pezzi? Meglio così, meglio la compagnia di questi intrecci e queste architetture sonore liberatorie, che, come una pioggia battente, ripuliscono le nostre coscienze dagli incubi, dall’ignoranza, dal torpore e dagli slogan, con i quali la nostra società globale tenta di trovare un supporto e un appiglio cui avvinghiarsi per non essere stritolata dalla forza dirompente della verità di questa raccolta, di queste inquietudini trasformate in canzoni.