I Bunuel sono quattro cani andalusi che abbaiano alla luna. Suonano noise d’autore. Sono sanguigni come gli Old Time Relijun.
I Bunuel sono Eugene S. Robinson, il frontman statunitense (Oxbow). Xabier Riondo, chitarrista italiano (Afterhours and company). Franz Valente, batterista sempre italico (Teatro degli Orrori). Andrea Lombardini, ancora dall’Italia, al basso.
Sono surreali ed estremi come, appunto, Luis Bunuel. Il loro suono è minaccioso e il loro hardcore è come la famosa lametta che taglia l’occhio nell’opera indimenticabile e insuperata del grande regista. Per loro stessa ammissione, i membri della band si lasciano trasportare dal flusso creativo e cercano di abitare quei luoghi tra sogno e realtà. Esplorano violenza e grazia, luce e oscurità. Cercano di elevare la violenza e la rabbia ad arte. E ci riescono benissimo, a mio parere.
La recensione dei pezzi è presto fatta. “Drug Burn”, “Bleat”, “Killing On The Beach”, “High. Speed. Chase”, “Fixer”, “A Room In Berlin” sono sei dannati capolavori. “Leather Bar” è un muro di rabbia. Il resto è un’ode agli uragani. Non si scivola mai nel cliché. Non si rischia mai la noia o la ripetizione fine a se stessa. Un plauso particolare lo merita il cantato. Disperato, imprevedibile, poesia di licantropo.
“Mansuetude”, è una molotov. È David Thomas che sniffa come Scarface.