Una batteria implacabile e una chitarra che riempie, con vigore, ogni spazio vuoto, donando colore, tono e melodia ad ogni singolo brano, mentre le ritmiche incalzanti, pressanti e turbinose dei tamburi scacciano via ogni brutto pensiero, ogni ombra austera del passato, ogni severo pregiudizio e, soprattutto, ogni grave e solenne apprensione quotidiana.
Ormai, il Kindergarten beneventano è, a ragione, uno spazio affrancato dalle molteplici ed innumerevoli spore che intossicano ed avvelenano le nostre esistenze; possiamo smarrirci in questo amorevole giardino sonico, nelle sue atmosfere che percepiamo non essere inquinate dalla cupezza, dal pessimismo e dalla routinaria desolazione del mondo moderno. Il vero inferno, infatti, è quello che sta là fuori, quello sul quale le sonorità, urgenti ed impellenti, dei Devils, tra ardenti vagiti blueseggianti e micidiali detonazioni garage-rock, ci spronano a riflettere e ad aprire gli occhi.
E’ tutta un’illusione, pensiamo di essere liberi, crediamo di essere dei privilegiati o di poter costruire, in pace, il nostro miglior futuro, ma, in realtà, non siamo altro che i mastini fedeli del padrone, i segugi infermali che difendono, con il proprio dolore e con la propria rabbia, un sistema di potere e di controllo, di manipolazione e di sfruttamento, che, da secoli, è sempre lo stesso. Certo, può cambiare il suo volto, può sorriderci e incantarci, può contare sulle nuove, sorprendenti tecnologie, sui loro potenti algoritmi di calcolo e sulle loro intelligenze artificiali, ma il suo spirito è bellicoso e corrotto. La sua voce quella delle armi sempre più sofisticate, invisibili e distruttive; è la voce apocalittica delle conquiste militari, della violenza, della carestia, della pestilenza e della morte.
Gli amplificatori disposti sul palco, il subitaneo e repentino avvicendarsi di fuzz e di distorsioni, il loro rock’n roll ultraterreno, la forza con la quale sbeffeggiano il male e i fantasiosi richiami al mondo del cinema, sono la leva che può riscattarci dalle possessioni mediatiche, estetiche, economiche e apparenti del nuovo millennio. La voce di Erika, infatti, assume la consistenza di un mantra catartico, un impulso che ci esorta a superare le pieghe immobili e reazionarie di questi giorni mostruosi, per iniziare, finalmente, a vivere, ad appassionarci, a conoscere gli altri e, quindi, a svincolarci da quelle inibizioni – individuali e collettive – che ci fanno rimanere, per anni, impigliati nel medesimo giro, nelle stesse certezze e cattivi pensieri, nelle medesime complicazioni esistenziali, nelle stesse droghe, nei medesimi rapporti deleteri, inutili e nocivi.
E così facendo ci perdiamo il bello di questo stupefacente e irripetibile spettacolo che è la nostra vita, ci perdiamo la parte più eccitante, quella più sensuale e più provocante. Ma il duo napoletano è qui per rammentarcelo, è qui per sciogliere i dubbi superflui, è qui per raccontarci che non è mai tardi per gioire e imparare, non esistono luoghi sacri, non esistono tempi prestabiliti, siamo semplicemente degli accordi che vanno suonati ed ascoltati, desiderati e trovati, scossi ed assaporati, consumati e vissuti.