Capita. A volte di più, a volte di meno, in questo caso però quasi sempre. Capita che un maestro della settima arte, universalmente riconosciuto come uno dei più grandi ancora in vita, uno di quelli da correre in sala per vederne l’ultima fatica, cada nel più classico dei tranelli che l’industria cinematografica possa ordire: riprendere il filo di un vecchio discorso, di quelli usciti bene, talmente bene da diventare un simbolo della mitologia cinematografica, credere di trasformarlo quando invece inavvertitamente lo si sta semplicemente deturpando nell’atto di capovolgerlo, confezionarlo e servirlo alla tavola di poveri avventori nostalgici. In poche parole la creazione di un sequel cinematografico.
Il grande nemico di questo prodotto è rappresentato dalla grandezza del suo predecessore, più essa è ampia, più le aspettative saranno moltiplicate, più il regista cercherà di soddisfarle con scelte che ne decreteranno l’inesorabile sconfitta. Di solito il tonfo è fragoroso e coinvolge la parte artistica così come quella economica, a volte però, come in questo caso, il film è semplicemente divertente.
Il Gladiatore 2 è un film divertente, “funny” come direbbero i nostri amici a stelle e strisce. Certo, risulta fondamentale se non addirittura propedeutico alla visione, l’eliminazione totale dalla memoria delle atmosfere evocative del suo predecessore, i magnifici dialoghi tra Proximo e Massimo, tra Marco Aurelio e Commodo, il tutto in un crescendo di tensione e mitologia sottolineato dalle musiche di Hans Zimmer.
Non sarà facile data la volontà del regista di ricordarci, come fosse un gladio infilato nella carne viva, in ogni “spiegone” camuffato da conversazione, che questo è il sequel del capolavoro. Dimenticatelo e pensate ad un grande carnevale (o carnevalata?), in una città più pop di quanto Roma sia realmente oggi, governata da imperatori popstar, con epitaffi in inglese su tombe di vecchi gladiatori romani, aperitivi con liste di attesa, passaggi segreti come in Indiana Jones, rinoceronti in bellavista come porchetta, mancherebbe solo la metropolitana (ma quello a Roma rappresenta un problema atavico).
Alla fine rimangono poche cose, probabilmente l’interpretazione di Denzel Washington e poco più. Le interpretazioni del resto della compagnia attoriale è rigorosamente dimenticabile. La colonna sonora invece (punto di forza del precedente capitolo) risulta essere indimenticabile in quanto inesistente. Un grande carrozzone hollywoodiano che scivola spesso nell’americanata, intrattenimento a buon mercato e politica spicciola.
Se questo è il film più politico di Scott (come abbiamo letto in più di qualche recensione), non osiamo pensare agli altri lungometraggi, della serie “Costa Gravas spostate proprio”. Se non si è capito noi non siamo delusi, ma fortemente arrabbiati. Non si toccano i capolavori del cinema mondiale, sono eredità di tutti.