Giunge in dirittura d’arrivo di questo 2024, pronto a scompigliare le carte già ormai quasi prestabilite in fatto di liste varie dei migliori album dell’anno, questo progetto davvero particolare a firma di Vittorio Nistri e Filippo Panichi.
Un disco senza titolo ma che già dall’evocativa copertina si fa premonitore di ascolti attenti e intensi, dove la predisposizione “aperta” e universale diventa la chiave di accesso ideale per addentrarci in un lavoro di indole sperimentale che però non va mai a disperdere i suoi tratti più emotivi e profondi.

Credit: Lorenzo Desiati

Se i due protagonisti di questo originale e coinvolgente progetto avevamo imparato a conoscerli nelle loro precedenti esperienze, sempre portatrici di elementi di libertà e innovazione (Nistri nei Dead Burger e negli Ossi, Panichi come chitarrista e abile “maneggiatore” di suoni dedito a sperimentazioni noise e drone), qui l’incontro ha prodotto qualcosa di unico, nel combinare la cosiddetta chamber music con un retaggio elettronico sempre vivo e presente ma mai invasivo.

Le nove tracce di questo album (tutte strumentali) diventano piccoli mondi sonori in cui rumore e sinfonia, modernità spinta e classicismo si intersecano dando vita a episodi che, se anche possono in un primo momento spiazzare (penso all’intro de “Il Faro di Schrodinger” che apre la raccolta) finiscono inevitabilmente poi per conquistarti, sia quando avvolgono e rassicurano, sia quando scuotono e mettono in guardia.

Si avverte la componente cinematografica dell’opera, le canzoni (tutte dai titoli tanto fuorvianti quanto maledettamente affascinanti) sono piccole suite che sfuggono alle facili definizioni e che arrivano a stupire facilmente, che sia per un dettaglio sonoro (impossibile non segnalare il “Pipistrellator”, un rilevatore di ultrasuoni creato da Panichi), un particolare arrangiamento, l’ingresso dei fiati (si pensi al clarinetto suonato da Enrico Gabrielli in “Maya Deren Blues”), i magnifici archi che conferiscono solennità alla notturna “La risacca dell’alba”, il piano che si innesta meravigliosamente in un tessuto di synth nella delicata “Segreti” o la cornice di stampo jazz psichedelico che caratterizza un momento cruciale come “Sheriff in Tiraspol”, esempio pragmatico di come la sperimentazione possa essere sapientemente incanalata senza perderne la natura ondivaga e misteriosa.

Sarebbero tanti altri i punti salienti da evidenziare ma a questo punto mi piace invece soffermarmi sui musicisti che affiancano i protagonisti in questo lungo ed affascinante viaggio: Silvia Bolognesi (dell’Art Ensemble di Chicago) al contrabbasso, Giulia Nuti alla viola, Pietro Horvath al violoncello, Edoardo Baldini al trombone, oltre al già citato Enrico Gabrielli ai fiati (sax e clarino). Ottimo il contributo grafico ad opera di Beppe Stasi per quanto concerne il suggestivo disegno di copertina e Gabriele Menconi che ne ha ottimizzato il dipinto realizzando un grande progetto visuale.

Il tutto concorre alla riuscita di un lavoro dall’ampio respiro, suonato con strumenti “veri” (in alcuni casi assai ricercati quando non proprio creati ex novo dai Nostri, animati da ingegno e creatività) e in cui i richiami a certa nobile musica d’avanguardia (riconoscibile nelle esperienze di Brian Eno, nel Battiato più sperimentale degli anni settanta o nel nume tutelare Egisto Macchi) si fondono con fascinose atmosfere da colonna sonora alla Nino Rota, creando qualcosa di unico e sorprendente.

Un disco che, pubblicato un po’ a sorpresa dopo una lunga gestazione, andrà a guadagnarsi per quel che mi riguarda la palma di migliore in assoluto tra quelli realizzati da artisti italiani quest’anno.