10. KING HANNAH
Big Swimmer
[ City Slang ]
La nostra recensione

“Big Swimmer” richiama atmosfere calorose provenienti dagli anni Novanta, aperture elettroniche e ingenue spigolosità grunge-rock, senza perdere di vista, però, quello che siamo diventati oggi e tentando di recuperare, tra le sfumature indie-folk di questi undici brani, la voglia di vivere, nonché di riconoscersi e confrontarsi con la propria tristezza e con la propria insoddisfazione, tentando, quindi, di superare quelle che sono le nostre decisioni sbagliate e di essere meno implacabili nei nostri giudizi; in modo da ottenere, alla fine del viaggio, una concezione e una visione della musica, dell’arte, della realtà e della vita che non debbano essere, per forza di cose, quelle con le quali siamo cresciuti e che abbiamo sempre considerato normali. Perché, oltre l’oceano, oltre la nostra storia, oltre lo schermo di questo PC o di questo smartphone, dall’altra parte della strada, dall’altra parte del mondo, esistono prospettive che non abbiamo mai assaporato e che potrebbero consentirci di prendere, finalmente, il volo e di impreziosire quelli che diventeranno, un giorno, i nostri racconti, le nostre canzoni, i nostri ricordi, i nostri sogni, tutto il tempo che saremo in grado di donare alle generazioni del futuro.

9. FLOATING POINTS
Cascade
[ Pluto ]
La nostra recensione

Un dj, le sue casse, le sue macchine, le sue luci stroboscopiche, i suoi dannati cursori e pulsanti, ed uno spazio, apparentemente limitato e nascosto, quello della pista da ballo, che, però, man, mano si espande ovunque, arrivando ad inglobare l’intero universo, qualsiasi forma di vita, ogni corpo celeste e, soprattutto, ogni dimensione temporale. Ciò che è accaduto davvero; ciò che, forse, succederà nel prossimo futuro; e ciò che, invece, è avvenuto solamente nella nostra immaginazione, laddove la verità può essere una preziosa e salvifica premonizione, ma anche un perverso e diabolico miraggio; un miraggio sul punto di dissolversi, alle prime luci dell’alba, dell’odioso, caotico, dispotico e ripetitivo giorno nuovo, donandoci, però, prima del suo estremo ed eterno congedo, un miscuglio accattivante di bassi sincopati, di synth atmosferici, di elettroniche incalzanti e di beat jungle, house e techno. Nervosi, imprevedibili, appassionati, distorti, toccanti e impetuosi carillon robotici che spazzano via ogni barriera e ogni confine che le dittature della civiltà, della religione, dell’economia, della politica e della tecnologia hanno creato attorno a quelle che, in fondo, erano e restano anime istintive, anime irrazionali, anime pure, anime primordiali, anime incoscienti.

8. YARD ACT
Where’s My Utopia?
[ Universal Music ]
La nostra recensione

Non c’è più spazio per la fantasie, per le rivolte, per le rivoluzioni, per qualsiasi estenuante e affamata forma di utopia; è un suono monotono quello che avvolge il mondo e che sovrasta la domanda con la quale la band inglese intitola questo suo nuovo album. Una domanda che risuona, in maniera cupa e dolente, nelle nostre coscienze, mentre un fiume di parole, di concetti, di slogan, di ricordi e di speranze va a sbattere, trauma dopo trauma, contro quello che è un muro invincibile di indifferenza. Un muro che, quotidianamente, viene adornato con i finti e sgargianti colori di una pseudo-cultura pop, fluida ed artificiale, che finge di essere inclusiva, democratica, giusta, corretta ed eco-sostenibile, ma che, in realtà, aspira solamente a rafforzare e consolidare il proprio potere temporale, la propria capacità di manipolazione, di influenza e di controllo. Le persone comuni, intanto, sono troppo vulnerabili, estremamente fragili, e vengono spazzate via dalla nuova ondata di dati alterati, di rielaborazioni faziose della verità, di ingiusti sospetti e di assurde paure virtuali.

7. KIM GORDON
The Collective
[ Matador Records ]
La nostra recensione

Kim Gordon mette al centro di questo suo nuovo lavoro, “The Collective”, il senso di privazione, di vuoto, di mancanza di qualsiasi opportunità e di pericoloso abbandono che infesta le nostre esistenze; queste sonorità claustrofobiche, oniriche, sofferenti, acide e taglienti penetrano, con violenza, nelle nostre case, nei nostri luoghi di lavoro, nelle nostre scuole, nella nostra intimità, nei rapporti umani ed affettivi, lacerandoli dalle fondamenta, così da apporre, senza alcuna possibilità di opposizione, il proprio bollino virale, il proprio narcotizzante codice a barre, il proprio tossico sigillo, il proprio insindacabile, arrogante ed opprimente giudizio. Un giudizio che andrà a decretare quello che sarà il nostro successo oppure il nostro fallimento, nascondendo, dietro la maschera buonista e sorridente di un bravo cittadino, di un compassionevole credente, di un vero patriota, di un padre modello, di un buon fratello, di un compagno amorevole, di un amico sincero o di un amante appassionato, quella che è, invece, la versione monodimensionale, autoritaria, dispotica e brutale, di un unico prepotente e arrogante padrone. 

6. JACK WHITE
No Name
[ Jack White ]
La nostra recensione

“No Name” tenta di essere più forte della confusione, del caos e della cacofonia virtuale che sovrastano i nostri pensieri e i nostri sentimenti; il suo blues-rock esplosivo rimette al centro, delle sue riflessioni e delle sue scosse elettriche, la nostra libertà. Una libertà che deve essere, innanzi tutto, condivisa e partecipata, altrimenti, se ci ostiniamo a vivere nelle nostre bolle agiate di solitudine, non potremo mai sentirci veramente liberi. Queste tredici canzoni, che incastonano dentro di sé passaggi, trame e momenti di matrice lo-fi e garage-rock, nonché frequenti aperture rap e sonorità sporche, nervose, irrequiete e selvagge, sfuggite, direttamente, dagli anni Settanta più progressive-rock e più zeppeliniani, riportano Jack ai fasti del passato, al vigore veemente dei White Stripes, al giusto mix di potenza e di melodia, alla capacità di guardare la nostra realtà da angolazioni differenti, senza il timore di calpestare i piedi a qualcuno, senza alcuna riverenza nei confronti di tutti coloro che si sono, da tempo, arruolati nell’esercito di Dio, tra i salvatori delle antiche usanze, tra i difensori delle buone famiglie o tra i protettori della patria. Anche perché l’unica divinità, le uniche tradizioni, l’unica famiglia e l’unica patria di Jack sono quelle del blues.

05. PORRIDGE RADIO
Clouds In The Sky They Will Always Be There For Me
[ Secretly Canadian ]
La nostra recensione

Vivo in un paese adagiato ai piedi di dolci colline, sferzato, in continuazione, da un vento che è, a volte, impetuoso e prepotente, a volte, invece, leggero e piacevole, ma che costringe, sempre e comunque, le nuvole a restare, perennemente, sospese ed imprigionate sulle sommità di quelle stesse colline. Nuvole che sembrano essere lì per ciascuno di noi, come se fossero la testimonianza, concreta e consistente, dei tumulti romantici del nostro passato. Tumulti che tratteniamo dentro di noi; che conserviamo con insistenza; che sfamiamo col nostro presente; che proiettiamo nei nostri impossibili futuri. Tumulti, a cui, poi, ci aggrappiamo, con tutte le forze, per mantenerci a galla e non sprofondare nell’indifferenza più totale e disarmante, ma che, allo stesso tempo, detestiamo con tutto il cuore; vorremmo liberarcene per sempre e vedere cosa c’è dietro quegli orizzonti invisibili che continuiamo solamente ad immaginare e raffigurare nei nostri sogni silenziosi. Intanto le nuvole catturano pensieri ed aspirazioni, come se fossero le tele dell’anima, mentre il coraggio e la speranza, la disperazione e lo sconforto, il destino ribelle e le nostre scelte consapevoli si disperdono in queste undici canzoni, avvolgendole di cruda e pressante malinconia, di vibrazioni indomite di indole punkeggiante, nonché di morbide e confortevoli trame ed atmosfere elettroniche.

4. THE CURE
Songs Of A Lost World
[ Polydor Records ]
La nostra recensione

Più il tempo mostra il suo effetto sui nostri corpi, più noi ce ne distacchiamo. Lui può ucciderci, ma noi possiamo ignorarlo, possiamo trascurarlo, possiamo spezzarlo, possiamo lasciarci trasportare dall’auto-reverse onirico di cui sono dotate le nostre anime e ritrovarci, improvvisamente, in un’altra dimensione. No, non si tratta del 1989, ma nemmeno di questo irascibile presente o del futuro che, nonostante i tanti proclami disfattisti o i soliti slogan carichi di pericolosa indulgenza, nessuno può davvero prevedere. Si tratta, invece, della consapevolezza, al di là di tutte le congetture, di aver davvero liberato, finalmente, la nostra fantasia; di riuscire a trasmettere ciò che siamo veramente; e di non aver più il timore di affrontare quelle che sono le nostre meditazioni più oscure. In un mondo che si convince, sempre più, di dover correggere e perfezionare ogni cosa, comprese le nostre stesse emozioni, sfruttando la potenza di calcolo delle sue intelligenze artificiali e creando incastri assolutamente perfetti di suoni e di parole, magari sfidando persino la morte, questo disco, con i suoi inciampi, le sue ombre e le sue imperfezioni, diventa, dinanzi ai nostri occhi assuefatti alla intensa luminosità degli elettroni che corrono, follemente, da un punto all’altro di chip e di schede elettroniche, un altare dell’autenticità e della sincerità.

3. MOIN
You Never End
[ AD 93 ]
La nostra recensione

E’ una metamorfosi sonora continua, quella di “You Never End”, un’esigenza di cambiamento che vuole rispecchiare, dal punto di vista musicale, quelli che sono i bisogni naturali degli esseri umani. Il movimento, la conoscenza e la contaminazione sono, infatti, elementi imprescindibili della stessa vita, anche se, oggi, in questo mondo così arido, prevedibile e moribondo, tutto viene traslato, ridefinito e riprodotto, in maniera artificiale, sul piano, fasullo ed innaturale, delle nostre esistenze virtuali. Ma non si tratta, ovviamente, di vero e di salutare movimento, non c’è alcuna contaminazione umana, né fisica, né affettiva, né mentale, non c’è nessuna conoscenza profonda dei fenomeni osservati e percepiti, ma si tratta, semplicemente, di uno sterile e temporaneo consumo di informazioni che sono già lì, archiviate su qualche server remoto, a nostro comodo uso e consumo. Nel disco, invece, diverse voci – e, quindi, diverse esperienze umane ed artistiche – si susseguono tra loro, tra i riverberi e le parole, mescolando le strade frenetiche ed affollate di Londra con altri territori, con altri paesi, con altre tradizioni, con altre latitudini emotive, così da popolare quella che è una dimensione sonora, spirituale e narrativa, completamente nuova, misteriosa ed enigmatica, mutevole, inquieta, curiosa, volubile, ma sempre accessibile, così da da far sentire ciascun ascoltatore a proprio agio, come se si trovasse in un luogo assolutamente noto, caro e familiare.

2. GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR
No Title Ad Of 13 February 2023 28,340 Dead
[ Constellation ]
La nostra recensione

E’ così che i Godspeed You! Black Emperor presentano questo nuovo album. Nessun titolo, nessun nome, proprio come nessun nome hanno le vittime innocenti dei tanti, troppi conflitti che insanguinano il mondo. Noi stiamo qui a discuterne, a fare i professori, a dare patenti di legalità o di giustizia, a somministrare colpe e ragioni, ma, intanto, la pila del morti si fa sempre più alta. Morti senza alcun nome. La band canadese ci sprona ad agire; non basta dichiararsi pacifisti a parole, non è sufficiente affermare che la guerra è qualcosa di abominevole e poi continuare per la propria strada, magari facendo alleanze e stringendo patti ed accordi con coloro che queste guerre le promuovono, le alimentano, le sostengono e, spesso, le trasformano in ottimi affari. La nostra resistenza non può essere un concetto astratto, ma deve essere impegno concreto, attraverso la pressione che esercitiamo sui nostri politici e sui nostri governi, attraverso il voto, attraverso la disobbedienza civile, attraverso il boicottaggio, attraverso le manifestazioni di protesta e di dissenso. Nessuna guerra è giustificabile e non esistono guerre tali da colpire e punire solamente i cattivi e gli assassini e risparmiare, invece, tutti gli innocenti. “No Title As Of…”non teme di muoversi tra le brutture del mondo moderno, criticando, apertamente, la propaganda capitalista occidentale che tende, solitamente, a trovare una giustificazione per i propri errori politici, per le proprie scelte geo-politiche e per i comportamenti violenti dei propri amici. 

1. THE SMILE
Wall Of Eyes
[ Self Help Tapes LPP ]
La nostra recensione

Ci fu il tempo delle armonie, il tempo degli accordi che si collocavano, in maniera perfetta, in uno schema magico, etereo ed elettronico, che, però, sotto, sotto, serviva a fornire una visione diversa alla nostra stessa esistenza, del mondo che avevamo attorno, delle nostre idee e di quelle degli altri. Gli altri, dei quali, a volte, abbiamo paura; gli altri che, spesso, critichiamo aspramente; gli altri che incolpiamo di ogni deriva sociale, ambientale o politica; gli altri che, al di là di parole, svuotate di contenuto concreto, siamo noi, la nostra società, le nostre interazioni, i nostri complessi, la nostra maniacale tecnologia, la folle corsa verso un traguardo di bellezza, di ricchezza, di potere e di appagamento che è irrealizzabile, falso, sciocco, pericoloso e soprattutto tossico. Ora questo tempo è finito, l’abisso è imminente, il trio Greenwood Yorke Skinner sceglie, per necessità, per naturale conseguenza, per gelida consapevolezza, un itinerario sonoro disilluso ed irrequieto, un nervo teso, un nervo scoperto, un nervo traumatizzato, mentre le ombre del disequilibrio e dell’errore spazzano via ogni forma di ipocrisia e mostrano come, in realtà, non siamo mai stati solidali. Non lo siamo adesso, a nostro perfetto agio tra guerre e morti innocenti e non lo eravamo durante la recente pandemia, quando abbiamo definitivamente rinunciato alla verità, alle domande, alla conoscenza delle cause e delle conseguenze, gettando chiunque – vittime, responsabili, politicanti, sobillatori, poliziotti, lavoratori, medici, soldati, complottisti, bravi cittadini – in un unico tritacarne virtuale e lasciando che il risultato, unico ed uguale, fossero occhi senza anima, meccanicamente abbassati sullo schermo di un dispositivo elettronico, sempre più arrossati, sempre più ammalati, sempre più vuoti, sempre più intrappolati, sempre più lontani da tutto e da tutti.