Mi sarebbe piaciuto cristallizzare “St. Vincent” in un’immagine di sintesi visiva agile e pregnante allo stesso tempo; poi Annie Clark ha dichiarato di aver voluto realizzare a party record you could play at a funeral e vabbe’, competizione conclusa, è stato chiaro che il suo quarto album auto-intitolato era anche ““ perfettamente ““ auto-definito. In quella bipolarità funereo-festiva si riassume il manifesto di pensiero di St. Vincent fra le giustapposizioni linguistiche improbabili (Take out the garbage, masturbate) e gli stridori meccanici dei synth che si fanno melodie compiute nelle undici tracce del suo ultimo lavoro. Il beat che ti fa muovere il piede inconsapevolmente (party record) e la densità concettuale di chi sotto sotto sta parlando di qualcosa di serio, molto serio (at a funeral).
Per arrivare qui, Annie Clark si è (s)tinta i capelli di grigio, ha cominciato a presentarsi con un look da “Life on Mars”, ballettini robotici inclusi, e ha messo in scena una straordinaria “Birth in Reverse”, trionfante di chitarre esagitate e isteriche; “nascita al contrario”, che vuole dire morte, dice lei: e invece a me suona tanto come “resurrezione a testa in giù”. Sì, perchè la nuova St. Vincent e il suo album eponimo giocano sistematicamente su ciò che non ti aspetti: dichiarare Albert Einstein la propria style icon, insegnare un trucchetto calcistico niente male sul teen website Rookie, scrivere una canzone sul fondatore delle Pantere Nere “Huey Newton” ripetendone il nome fra coltelli finti e vero ketchup (?), e poi “Prince Johnny”, ti ricordi quella volta che abbiamo sniffato un pezzo del muro di Berlino e quanto ne abbiamo riso stesi sul tappeto (???).
Si direbbe una fantascientifica distopia del senso, ma ambientata nel tempo presente: quello di “Digital Witness”, in cui la tv si confonde con la finestra e tutto ciò che non viene mostrato ““ o meglio, postato ““ non esiste, quello nevrotico degli urletti di “Psychopath” o di “Every Tear just Disappears”: call the 21st century, tell her to give us a break.
In linea con l’oggetto ““ I was envisioning a world where we are so disconnected from other people ““ Annie Clark ha creato uno stile musicale fortemente de-umanizzato, meccanico. La chitarra di cui è maestra sembra non dimenticare l’insegnamento dello zio jazzista Tuck Adress, ma è sempre contraffatta da effetti che ne irrigidiscono il suono rendendolo più aspro e artificiale, letteralmente metallico: e allora stupisce un po’ meno che “Bring Your Loves” nasca dall’ascolto di musica popolare turca e dell’heavy metal dei Pantera, con un pizzico di groove pensato sul funk neworleansiano dei Meters.
Il risultato è un piglio tonale di distacco ironico, quasi parodico, accentuato dall’artificialità degli ah ah – eh eh eh – oh oh alla Talking Heads (un po’ scontato ma necessario sottolineare l’influenza sotterranea di David Byrne) o dalle trombe farsesche di “Digital Witness”; lo sguardo di chi osserva dal trono [cfr. immagine di copertina] senza presunzione, ma con voluta distanza. Non a caso, al contrario, le tracce più melodiche e meno sperimentali dell’album sono anche quelle più genuinamente confessionali e autobiografiche: “I Prefer Your Love” dedicata alla madre, che stabilisce la sacralità come ordine di grandezza del tutto personale (I prefer your love to Jesus); “Severed Crossed Fingers”, racconto autobiografico sulle difficoltà di affermarsi come musicista.
“St. Vincent” atto IV è la storia della costruzione di un regno visivo e musicale di straordinaria imponenza dal quale non si potrà prescindere nei prossimi anni; allora per Annie Clark si dirà : e al quarto album è resuscitata, sì, a testa in giù, ed è ascesa ai cieli.
Credit Foto: Renata Raksha