Whatever is communicated through the purity of intention is out of my hands
è davvero difficile scrivere qualcosa ascoltando “Black Metal” di Dean Blunt, un lavoro che è banalmente ricchissimo di contenuti racchiusi in una struttura ambivalente. “Forever” è lo spartiacque non solo perchè sta nel mezzo: pianoforte, chitarra, lagna scoordinata e un sax stordito pronto ad accogliere chiunque nella nebbia. Si apre un limbo mai pienamente stabilizzato ““ d’altronde se fosse coagulato e consolidato non lo avremmo chiamato limbo – dove la condanna è dietro l’angolo. Insomma la prima parte è tutta un folk slabbrato, chitarre, panoramiche interne sull’identità vista come recinto e non come meta salvifica. Psicosi quieta ed intima. La seconda sezione è una danza sbilenca ed afona, dub periferico, flussi ambient stonati, elettronica, coscienza dormiente e prese per il culo continuate. Comunemente una recensione dovrebbe continuare così, ma come si può procedere analizzando pezzi chiamati “PUNK” e “COUNTRY” quando questi non hanno nulla a che vedere con i generi base della musica? E pure il titolo del lavoro non è un riferimento al cupo. Possiamo tranquillamente parlare di erba se vogliamo restare ancorati ai clichè che circolano intorno al personaggio, un’artista che non fa molto per risultare simpatico.
Qui cercheremo di scavare, perchè deve rimanere molto oltre l’hype, ammesso che ci sia. Si rischia di perdere il succo, i testi e via dicendo, soffermandosi esclusivamente sull’idea preconcetta che ci si è fatti di Dean Blunt: un cazzone.
Everybody says I’m wrong
E quindi di cosa parliamo? Fondamentalmente bisogna saper ascoltare le persone anche se così facendo la proposta si carica di pesanti riferimenti. Then there’s black metal as black culture’s version of metal, I offer [“…] I hate black appropriation of death white tropes. I think that’s wack. Fucking Afropunk, Greg Tate shit. Si chiama in causa l’identità nera ed il discorso è radicale, visto l’irrisolvibile quesito che si pone nella testa dell’Altro. Se far propri i “white tropes” è una forma di assoggettamento culturale come si può evitare la discriminazione strisciante? Si cade in una sorta di cortocircuito cognitivo. Integrarsi nella società implica una mediazione necessaria e la perdita cosciente o meno dei propri riferimenti culturali. Dall’altro lato il rifiuto rafforza ulteriormente l’impressione di alterità violenta e misteriosa. Il colonialismo come lo si può leggere nei libri di storia è finito, ma nella mente rimane tale groviglio. Il contemporaneo non ha annullato certi tic omogeneizzanti in senso negativo e neppure la falsa positività dettata dal politicamente corretto.
Dean Blunt tocca queste corde, i livelli di comprensione di “Black Metal” sono estremamente vari. La messa in discussione dell’identità ““ o della sua trasformazione incontrollata – esplode in tutta la sua potenza e il tentativo di riscrivere alcuni confini è palese in più parti.
Stay out of it | And everything you see | Stay out of it | And everything you hear, con “LUSH” l’incedere della chitarra è armonioso e la voce si dipana chiara proponendo un distacco necessario per far partire una sorta di deriva non troppo pacificante. Lo smottamento è lento e graduale, “50 CENT” agisce come un narcotico somministrato a dosi massicce. Il ritmo melanconico ““ arricchito dalla voce femminile di Joanne Robertson ““ illumina stereotipi che generano un’immancabile esclusione. Strade smarrite, pensieri fuori posto e due versi che aprono (She got a new nigga | Now he can’t be found) e chiudono (All my niggas who think they’re real | If you know how I feel | Never mess with explosives, yeah) il duetto.
In “BLOW” e “100” non c’è nessuna redenzione e la processione continua in uno schema sempre meno definito. Una corsa disperata, radici che non esistono più e l’impossibilità a ritrovare una certa individualità . Ain’t nobody gonna find me.
“X” aggancia l’inizio del singolo “Trident” in una distesa di sottili accordi immersi in una melma di droni scurissimi. Le immagini di un crimine e poi una luce fioca che schiude un mondo periferico destinato a rimanere tale, in un rimando continuo tra le due voci una maschile e l’altra femminile. Mai guardarsi indietro prima di ritornare nel territorio sonoro iniziale.
I’m not who I’m meant to be, con “PUNK” l’incapacità di trovare riferimenti e la consapevolezza di tale mancanza si fondono. Non possiamo parlare di dub, figuriamoci di punk. Il microfono è utilizzato come appiglio finale per non cedere alla passività di una sezione ritmica volutamente bloccata. “COUNTRY” è un cartoccio pieno di latte fatto esplodere in una selva di synth affilatissimi che reintroducono una visione unilaterale, dove Dean Blunt ritorna il nero tossico, antipatico e cattivo munito di drum machine battente. Ce lo spiega in “GRADE”, “Look at me, look at me | Bad man wanna be me”. L’alienazione dei synth, il sax ancora una volta e una desolazione capace di annientare ma anche di offrire un messaggio di speranza, come in certi film di fantascienza. You’re not a rerun | Not just another one | You’re a new friend | You just began.
Dopo i fatti di Ferguson è facile torcere nel senso desiderato ogni affermazione rilasciata da membri della comunità afro, senza capire che spesso i nostri pensieri caritatevoli sono carichi di etnocentrismo. In parte “Black Metal” ci fa proprio vedere che anche molte manifestazioni, spesso narcisistiche, di vicinanza sono discriminatorie. Tali reazioni sono veicolate da un sistema indirizzato da dead white tropes già citati in precedenza.
E allora oltre alle categorizzazioni musicali sarebbe interessante conservare tutta l’esperienza personale che qui ci viene gettata addosso.
13 brani e 52 minuti a dir poco complessi, entrateci dentro con cautela e non trattate Dean Blunt con superficialità . Se il vostro amico espertissimo di musica definita underground, tutti ormai ne abbiamo almeno uno, vi dice che questo nero è un imbroglione, non ascoltatelo e ridete.