La vicenda storica e soprattutto umana di Alan Turing è alquanto incredibile e sorprendente: matematico, logico e padre dell’informatica lo scienziato omosessuale britannico è stato decisivo nelle sorti della Seconda Guerra Mondiale riuscendo a decriptare la celebre macchina tedesca chiamata Enigma che pareva indecifrabile, eppure è lo scienziato meno conosciuto del Novecento nonostante i suoi meriti e l’impatto sulla vita civile e la Storia umana non siano secondi a quelli di Einstein, o altri colleghi più conosciuti, per intenderci e buona parte di ciò è dovuto alle carte secretate dallo Stato circa il suo ruolo decisivo all’interno del conflitto mondiale e appurati solo dopo 50 anni come previsto dalla legge.
Detto questo bisogna inoltre inserire un altra piccola premessa: lo script “The Imitation Games” critto dallo sceneggiatore Graham Moore a su volta adattato dal romanzo “Alan Turing – Storia di un enigma” di Andrew Hodges raggiunse nel 2011 ad Hollywood la cima nella leggendaria Black List, ossia la lista stilata dai produttori degli Studios sulle sceneggiature più interessanti e non ancora prodotte. Dopo vari cambi di produzione alla fine decide di scommetterci la Black Bear Production che confeziona una pellicola che sembra studiata appositamente a tavolino per concorrere alle ambite statuette degli oscar.
Ma entriamo nel dettaglio.
La regia viene affidata al norvegese Morten Tyldum (“Headhunters” è il film norvegese che ha più incassato nella storia del paese) che si affida ad una regia scolastica, precisa e dettagliata seppur priva di guizzi e sorprende il suo posto nella cinquina di miglior regista redatta dall’Academy hollywoodiana. Chi non sorprende affatto, ed anzi si conferma ancora una volta uno degli attori più interessanti e in ascesa nel panorama cinematografico è Benedict Cumberbacht (“Star Trek – Into the darkness”, “Sherlock”) la cui nomination è sacrosanta capace di regalare sfumature e drammaticità ad un ruolo complesso come quello del geniale idiot savant Turing accompagnato da un cast di comprimari eccellenti come Mark Strong (“La Talpa”) e Matthew Goode (“A single man”) ed una protagonista femminile più in forma che mai, Keira Knightley che cresce ad ogni pellicola ed ottiene anch’essa una meritata nomination. Tutto il comparto tecnico è eccellente, dalla fotografia su scala di grigi dello spagnolo Oscar Faura, alle musiche del pluripremiato compositore Alexandre Desplat ma ciò che convince meno è proprio la sceneggiatura del quasi esordiente Graham Moore, la struttura narrativa alla flash forward e flash back divise in tre parti primarie è debole e sommaria, non approfondisce mai nessuna situazione con rigore e neanche riesce a caricare di pathos le vicende emotivamente più dense mancando di passione e soffermandosi su verbosissimi passaggi e didascalici tagli temporali.
La cifra stilistica del film si mantiene sugli standard televisivi inglesi, che sono pur sempre alti, ma non incide mai e si tiene ben lontano dall’affondare le mani sulla tragica vicenda umana del matematico inglese, ogni connotazione emotiva, svolta storica o progressione narrativa viene premunita di una voce fuori campo didattica e talvolta fastidiosa, scansando ogni ambizione di narrare con la forza delle immagini.
Occupato forse a piacere a tutti ed a tutti i costi (in molti hanno gridato alla similarità dell’operazione Il Discorso del Re che stravinse agli oscar) e con troppa carne al fuoco (geopolitica, storia, tecnologia, scienza, morale e molto altro) non trova mai una chiave di volta, limitandosi ad assecondare l’istrionico protagonista in una confezione elegante e curata in ogni minimo dettaglio ma privo di anima e scosse che lasciano un segno cinematografico importante. Rimane un ottimo biopic illustrativo privo di mordente ma saturo di manierismo.