Che, tra le cose più eccitanti capitate alla musica in questo primo lustro degli anni dieci, vi sia anche un duo, la cui etica lavorativa è palesemente improntata al recupero di testimonianze del nostro passato (discorsi celebri, stralci di telegiornale, brani radiofonici, voci registrate…), è indubbiamente singolare, ma s’inserisce pienamente in quel contesto post-moderno che dai film di Tarantino arriva fino a Blob: senza lo sguardo caustico di quest’ultimo e senza quell’attitudine cialtrona che si è impossessata del regista americano, i Public Service Broadcasting scelgono, per questo sophomore-album, un tema preciso, con lo scopo forse di confezionare un’opera meno ambiziosa, nella realizzazione ma non negli intenti, del celebrato esordio.
Ed è una mossa che paga: concentrare il proprio sguardo su quel periodo che Willgoose, la metà pensante del duo, definisce “il più straordinario della storia dell’uomo”, consente ai due inglesi di confezionare un album che scorre veloce ma non lascia indifferenti.
La sfida per la conquista dello spazio è così rappresentata da una serie di momenti epocali: il lancio dello “Sputnik” ha un suono che prima si finge techno poi esplode in deflagrazioni post-rock, mentre per la tragedia dell’Apollo 1 vengono scelti gli austeri archi di “Fire in the Cockpit”: al primo uomo nello spazio “Gagarin” è dedicato un memorabile funk motorizzato, mentre alla prima cosmonauta “Valentina” Tereshkova vengono intitolati quattro minuti di psichedelico ambient-rock.
I Public Service Broadcasting ribadiscono l’importanza ed anche la bellezza della loro poetica con un lavoro di grande accessibilità , eppure avvincente e mai scontato.