Rotte intraprese, rotte perdute, vite smarrite nell’esistenza, vicoli ciechi, eterni ritorni. Ecco l’insensato e poco comprensibile mondo dei Modest Mouse che ritornano con questo sesto capitolo dall’emblematico titolo “Strangers to Ourselves”. Un disco che ha avuto una lunga gestazione, tra titoli provvisori, forme abbozzate, scalette limate durante le uscite live.Una scelta che forse ha portato uno zibaldone di materiale che potrebbe essere ripreso per altri lavori. “Strangers to Ourselves” presenta uno scalettone di 15 brani per un’oretta complessiva a conferma della volontà di rendersi volutamente dispersivi, prolissi, svitati. I Mouse come il lupo perdono il pelo ma non il vizio.
C’è stato un non so che di svitato anche nella promozione del disco. Numerosi singoli hanno anticipato l’uscita del disco che ha cambiato tra l’altro diverse date ufficiali di pubblicazione. Ma per fortuna nostra è qui con una copertina forte, un’immagine vera, viva magari scelta per dimostrare che la band era nel mondo da qualche parte a perdersi nel tempo. La foto finita in copertina è di Alex MacLean esperto in fotografia aerea. Il soggetto è un villaggio residenziale per pensionati sconfinato in Arizona dove c’è una vita appartata ma con le stesse funzioni vitali che tutti conosciamo. Se a questa aggiungiamo la foto per il singolo di “Lampshades of Fire” scattata al distretto delle Flamingo Isles in Texas ci ritroviamo due località strambe, ambigue che trasmettono inquietudine con architetture claustrofobiche e labirintiche. Anche il video molto bello di “Coyotes” ci porta verso la rotta senza metà , un comune denominatore in un disco che presenta diversi ritmi, diverse intensità . Dopo una tripletta iniziale che fa sperare nell’ascolto del gran disco dell’anno, la struttura del disco si perde in strade senza uscita o in casi isolati come un atipico rap-rock di “Ansel” , la pseudo reggae “Sugar Boats”e il folk alla Banhart con “God is an Indian and You’re an Asshole”. Vivono sotto lo stesso tetto anche episodi riuscitissimi come “Best Room” e una chiusura da brividi per portatori di pelle d’oca “Of Course We Know”.
Dopo tutto resta quel dannato senso di smarrimento che è davvero il valore aggiunto di un disco che non può conquistarti al primo ascolto. Ma nei successivi può dirti molto.
Perfetto per scappare dalla linearità , dalla monotonia di una quotidianità che ha ben poco da dire. Se volete evadere per perdervi siete nel posto giusto.
Evitate i Residence e villaggi dislocati persi nella polvere del mondo in ogni caso.