Gli anni passano per tutti. Prendiamone atto.
Alla soglia dei 30 è forse il caso di rivedere ritmi ed utilizzo di energie.
La sera prima si e’ conclusa in mattinata, dopo sette ore non stop di balli e danze, con la buon Ellen Allien a menare beat in testa. Nella giornata successiva è d’obbligo un approccio più rilassato.
Ecco quindi il secondo giorno del “Festival Dissonanze” trasformarsi, per quanto mi riguarda, in un appuntamento da vivere in modo completamente diverso.
Questa volta arrivo relativamente presto, alle undici sono già dentro.
Il salone centrale che avevo lasciato in una sorta di girone dantesco non troppe ore prima, è ora territorio di pochi impavidi danzatori.
La consolle è tutta per gli Italoboyz, duo innamorato della italo-disco caciarona e festaiola, attitudine che purtroppo per loro poco si adatta ad un orario così anticipato.
Il tempo di prendermi una birra, guardarmi intorno e subito mi dirigo verso l’aula magna.
Ovattata, sobria e soprattutto munita di comode poltroncine, individuo in quelle quattro mura un “rifugio rilassante ” assolutamente in sintonia con il mio personalissimo mood .
Da quelle parti, da qualche minuto è in corso “Untitled Sound Objects” progetto degli svizzeri Pe Lang e Zimoun.
Basato sulla sperimentazione di diversi materiali portati a risuonare attraverso la vibrazione, questa installazione sonora è costituita da piccole macchine composta da piani elettromagnetici programmati e monitorati al computer, e magneti elettronici o motori vibranti, in combinazione con diversi materiali.
Insomma mucchietti di sabbia, ghiaia, piombini, ed altri solidi che fatti vibrare realizzano un concerto quanto mai particolare.
Come spesso accade in questi casi mi immergo in tre tipologie di spettatori : gli snob , i curiosi, gli entusiasti.
Superficiali i primi, esagerati gli ultimi, mi ritrovo viceversa nell’approccio interessato di coloro i quali avvicinandosi al palco, cercano di carpire prima di tutto il lato squisitamente tecnico (realizzazione e funzionamento) dell’esposizione.
Il tutto si esaurisce molto in fretta, giusto in tempo per fare un salto in terrazza per le battute finali di Pole.
Proprio nello stesso, incantevole, luogo dove la sera prima avevo assistito a gente del calibro di Nathan Fake e Apparat, scovo la vera sorpresa dell’intera manifestazione.
Stefan Betke, in arte Pole, realizza un dj-set assolutamente coinvolgente, dimostrazione reale di un evoluzione che ha portato il corpulento produttore tedesco dall’essere prima personaggio di punta dell’esplosione minimal-techno in quel di Berlino (anche grazie all’etichetta Basic Channell) ed ora protagonista a tutto tondo del pianeta clubbing.
Quello che concentra in mezz’ora scarsa di esibizione alla quale assisto ha del formidabile. Dub, nu-jazz, spunti tribali, kraut-rock, ritmi che con la mente mi portano alla scena baggy. Me lo gusto in seconda fila, seduto comodamente su quegli stessi lastroni di marmo trasformati in scomodi “cubi danzerecci” la sera precedente. Ottima musica e comodità , meglio non potevo certo sperare.
Terminato con Pole, me ne torno nel “rifugio” ricavato nell’aula sottostante. Il palco è già allestito, i Giardini Di Mirò sono pronti a calpestarlo.
La presenza di realtà musicali come i GDM e i Battles in una rassegna come Dissonanze, è la dimostrazione di come la linea di confine, in termine di interesse, tra rock e sonorità più spiccatamente elettroniche sia di questi tempi impercettibile.
Basta fare un giro per gli “indie-club” di qualsiasi città europea per rendersi conto come non è fatto assolutamente insolito ritrovarsi alle prese con un dj set nel quale convivono pacificamente tanto i nuovi “paladini” new-wave, quanto gli attuali eredi del french-touch o del big-beat.
Senza poi dimenticare come il recupero e la nascita di alcuni generi (elettro-pop e indie-tronica su tutti) abbia contribuito non poco al contatto di questi due mondi in passato somministrati a due categorie di ascoltatori così distanti tra loro.
Ora ci si imbatte sempre più frequentemente in una moltitudine di giovani che apprezza Aphex Twin e non disdegna il folk, che si dimena allo stesso identico modo tanto con i Maximo Park quanto con i Simian Mobile Disco, che accorre ad un concerto per vedere alternarsi sullo stesso palco realtà musicali non propriamente affini ( pensate ai recenti Of Montreal-Tarwater-LoFiFnk oppure Piano Magic-Telefon Tel Aviv di scena al Circolo degli Artisti di Roma).
La questione sembra inquadrarla perfettamente il buon Jukka al momento di presentarsi : “”….qui a Dissonanze siamo pesci fuor d’acqua, ma in questo acquario è un piacere nuotare”…” affermazione, che suona molto come un “nonostante le etichette ci vogliano lontani anni luce da questa bolgia di suoni digitali, siamo qui e ci sentiamo perfettamente a nostro agio”. La platea, comunque gremita, concorda.
La loro esibizione è tirata, diretta, godibilissima anche con le intromissioni elettroniche (volutamente ?) ridotte all’osso.
A differenza di quanto fatto ascoltare nel recente “Dividing Opinions” ““ dal quale peraltro recuperano diversi brani ““ è il ritorno agli esordi a caratterizzare la loro ennesima presenza romana. Lunghe cavalcate post-rock, con le chitarre ad alzare imponenti muri di distorsione e la batteria a dettare tempi incisivi e spediti. Prestazione superba a conferma di una realtà italiana capace di fornire prove impeccabili indistintamente sia dal vivo che in studio.
Il tutto dura una quarantina di minuti, alla fine dei quali ho giusto il tempo di sgranchirmi le gambe prima del tanto atteso “evento” Fennesz ““ Patton.
A questo punto bisogna fare una doverosa precisazione : il sottoscritto adora Fennesz, un po’ meno (anzi per nulla”….), Mike Patton.
Trovarmeli insieme nel dividere lo stesso palco, imponeva un interrogativo non di poco conto : chi influenzerà chi ?
Assisterò alle coinvolgenti atmosfere di elettronica cinematica al quale l’artista franco-austriaco ci aveva abituato in capolavori del genere quali “Endless Summer” oppure mi troverò al cospetto dell’ennesimo “bislacco” side-project a firma dell’ex leader dei “Faith No More” ?
Potere di you-tube e del tempo passato a sbirciare i video dei nostri impegnati nel precedente tour europeo, al momento della verità mi avvicinavo senza fiducia alcuna.
Il tappeto sonoro è lontano anni luce dai sognanti ricami computer-chitarra di tipico stampo Fennesz, ha più l’aria di essere un sinistro e rumoroso sottofondo sul quale Mike Patton può indisturbato levare i suoi urli. Attraverso un microfono filtrato oppure una rice-trasmittente, tipo quelle in dotazione a polizia e taxi, poco importa : sono e rimangono semplicemente urla.
Senza stare troppo ad indagare se questa sia la tanto decantata “avanguardia musicale”, oppure se questo tipo di musica necessiti di una particolare e superiore al comune cultura per essere apprezzata (infilate in questo discorso anche KTL e i suoi “drones”), resisto una ventina di minuti e mi dirigo all’uscita.
La fuga anticipata da quel luogo di rumori e grida termina nuovamente a cielo aperto, dove Isoleè è già chino sul suo armamentario.
Vuoi per l’ottimo passaparola legato alle sue presenze live, vuoi per una manciata di album considerati tra i migliori del genere minimal-house / techno (“We Are Monster” su tutti), questo appuntamento aveva tutte le carte in regola per risultare il più riuscito della seconda giornata
Viceversa l’impressione che ho avuto della sua performance è tutt’altro che positiva.
Assisto anche in questo caso a poco più di mezz’ora , ma a differenza di quanto visto con il sorprendente Pole, mi trovo di fronte ad un dj-set che fa registrare nel totale “piattume” la sua poco invidiabile caratteristica.
Un moscio ripetersi all’infinito di scontati beat techno-house, non una variazione degna di nota, non uno spunto in grado di evitare la scomoda etichetta di “stancante già sentito”.
Ci si annoia molto al semplice ascolto, ancor di più a ballare, e poi ad ulteriore conferma che il giorno storto capita prima o poi per tutti, figuriamoci per il “simpatico nerd” Raijko, inizia a piovere. E allora tutti dentro.
L’imprevisto ci fornisce l’occasione di fare nuovamente tappa nell’aula magna dove troviamo a dimenarsi Planningtorock.
Trovo subito difficile esprimere un giudizio definitivo su Janine Rostron, musicista e videoartista inglese trasferitasi, tanto per cambiare, a Berlino.
La sua esibizione senza infamia e senza lode, non è certo d’aiuto per un neofita della sua musica come me.
In piedi su una sedia, vestita come i Beastie Boys nel video di “Intergalactic”, munita del solo microfono la Rostron canta su una semplice base campionata, accompagnata alle spalle da assurde proiezioni video. Non penso capiti tutti giorni di suonare in un posto come il Palazzo dei Congressi ancor meno in un festival con un cartellone così prestigioso, ecco perchè questo “live-set” come minimo appare decisamente scarno per l’occasione.
Ascoltandola penso invece ad una incrocio tra Missy Elliot che scimmiotta The Streets e le Chicks On Speed alle prese con un cabaret di brechtiana memoria.
Il web incensa tanto Planningtorock quanto il suo debutto “Have It All”, noi semplicemnte sospendiamo il giudizio.
Il mio rimbalzare tra aula magna e terrazza è giunto così al termine. Prima di lasciarmi alle spalle questa settimana edizione decido però di mettere piede per l’ultima volta, nell’imponente salone centrale.
Alle 3.30 scocca l’ora dei Digitalism. E con i tedeschi chiudo decisamente il cerchio.
In pochi mesi ho infatti assistito ai dj-set del “‘gotha’ di questa ennesima rivoluzione dance, una sorta di “trio delle meraviglie” al quale , volenti e nolenti, è affidato il compito di farci agitare il sedere per i prossimi mesi estivi.
Simian Mobile Disco e Justice all’Akab ospiti dell’imperdibile “l-ektrica nite”, ed ora i “digitalisti” Jens “Jence” Moelle e Ismail “Isi” Tuefekci, dopo queste “sudate” e “scatenate” apparizioni i segreti della scena “dance post daftp-punk”, se mai ce ne fossero stati, sono del tutto svelati.
Ritmiche “grasse” figlie illegittime delle lezioni di house e “dance-music “’80” a cura Thomas Bangalter e Guy Manuel De Homem-Christo, synth come se piovessero, schitarrate se volete ora “tamarre” ora ruffianamente new-wave, ma senza ombra di dubbio utili all’intento, che senza troppi giri di parole è quello di far agitare in un danza frenetica l’intera sala dall’imponente soffitto. Beh, i Digitalism ci riescono senza alcun colpo ferire.
Con le ultime forze residue resisto fino alla fine della loro performance, aiutato in questa ardua impresa da pezzi come “Zdarlight” “Digitalism in Cairo”, “Pogo” trascinanti singoli “red-bull” capaci di tenere in piedi anche un’anima sull’orlo del crollo fisico come il sottoscritto.
Stremato da questa irripetibile due giorni ed da una chiusura che sarebbe riduttivo definire “con il botto” , raggiungo l’uscita del monumentale palazzone proprio nel momento in cui Chris Liebing prende possesso di cuffie e consolle.
Il senso di appagamento è ora totale così come rafforzata la convinzione che mi ha accompagnato soprattutto nei giorni antecedenti a questa manifestazione : da quest’anno al Sonar di Barcellona si staranno chiedendo se il festival di musica elettronica più prestigioso ed importante d’Europa si svolge ancora e sempre in Catalogna.
Thanx to Giulia Baldi
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