Pharoah Sanders, Caetano Veloso, Al Green e Elvis, la morte di un cane di nome Faulkner, Tom Petty, i R.E.M., il tramonto di Roma, Ligeti, l’odore delle macchine nuove, Almodovar e Bresson, l’earl grey, il kintsugi, Neruda e Ballard, il deserto del Mojave, e molto altro.
Quale sia il minimo comune denominatore di tutto ciò bisognerebbe chiederlo a Bradford Cox, leader dei Deerhunter.
Fatto sta che il risultato di tali fattori è “Fading Frontier”: 36 minuti distribuiti in 9 tracce.
Un album breve, adatto all’era di spotify e di youtube, in cui nessuno sembra avere il tempo (e/o la pazienza) di dedicarsi ad un disco nella sua interezza.”¨
+ songwriting – ambient punk
Così potrebbe sintetizzarsi il nuovo lavoro della formazione di Atlanta. I Deerhunter tralasciano (in parte) gli sperimentalismi che avevano contraddistinto i precedenti episodi, per concentrarsi su una ricerca della forma canzone, ma sempre alla loro maniera.
In verità tale ricerca era già iniziata con “Halcyon Digest” (a detta di molti il capolavoro della band), ma è in “Fading Frontiers” che emerge maggiormente l’autorialità “pop” di Cox, anche a causa di arrangiamenti maggiormente minimali che in passato.
A pervadere la frontiera evanescente dei Deerhunter è un mood mite e tipicamente primaverile, interrotto dal funk beckiano di “Snakeskin”. “Ad Astra”, con richiami agli Stereolab, è l’occasione di conferma dell’abilità compositiva di Lockett Pundt. “Living My Life” è un mix sapiente di chitarre jangle e elettronica eterea. Nella coda di “Leather and Wood” si riscontrano tracce di psychedelia aggiornata al 2015. “Breaker” e la conclusiva “Carrion” le melodie più cristalline.
“Fading Frontiers” è pop, nell’accezione più genuina del termine. Un album accessibile e positivo: (per i neofiti) l’ideale per immergersi nella weirdness del mondo di Cox.