” «Il nostro disco è la risposta di Detroit a “Nevermind” dei Nirvana ». Jack White è, a titolo puramente personale, uno dei tre musicisti sotto i trentacinque anni più interessanti della musica indipendente attuale, però di stronzate spesso ne dice. Pausa. Riavvolgiamo un po’ il nastro. Ho sempre creduto che non esistesse niente al mondo che mi facesse più schifo dei broccoli e dei servizi di Studio Aperto. Poi, recentemente, ho scoperto gli Hard-Fi, spinti com’erano dall’NME, ed ecco che “Cash Machine” diventa istantaneamente il mio personale risveglio intestinale, al mattino, e la registrazione della performance della band inglese sul palco di S.Giovanni (il primo maggio) il trucco per i casi di “emergenza stitica” (ma per il momento non ne ho avuto bisogno).
Considerando tutta la pubblicità fatta dalle riviste d’oltremanica a questo gruppo, ero piuttosto scettico nei confronti dell’ennesima nuovissima ondata, Panic!At The Disco, Raconteurs e Dirty Pretty Things in primis. Superlativo relativo sbilanciatissimo. Una consuetudine. Un po’ come lo scaccolamento pressante di Maurizio Costanzo durante i suoi talk show. Mille frasi che iniziano col “the most”…” o “the best”…” etc etc “Capolavoro da quel genio di Barat” leggevo, e per reazione mettevo su gli Editors (così imparano a sottovalutare gli sfigati piagnoni”…). “Astonishing” accoppiato al nome di Jack White: andavo molto più indietro nel tempo recuperando qualcosa di George Harrison. Poi un amico mi ha prestato “Broken Boy Soldiers” (considerando che dalla redazione “gli atti caritatevoli” sono latitanti da un po’”…) e quindi mi sono detto “EVVABBEH”…M’HAI PROVOCATO”…E MO ME TE MAGNO”…”. Nastro riavvolto. Play.
Jack White non è, come qualcuno ha scritto, il miglior chitarrista della sua generazione, ma di certo uno dei più sanguigni, istintivi e sudati. E’pieno di talento e caccia fuori dell’ottimo blues. Quest’album, nato grazie all’unione di un paio di Greenhornes e di Brendan Benson è un buon viatico di indie rock per combattere i tragitti noiosi in macchina. Niente di eccellente. Niente di brutto. Ecco: tutto suona come se i Beatles dopo aver ascoltato “White Blood Cells” si fossero arrabbiati, avessero deciso di fare un disco garage rimanendo però, alla fine, ancora molto Beatles. Non raccontiamoci cazzate, di giri di questo tipo con il basso e la chitarra a rincorrersi tra qualche stop-and-go e un po’ di blues elementare ne avrete sentiti a tonnellate nel corso degli anni. Avete già letto altrove sicuramente della stupenda voce in falsetto di White, dei rimandi a qualcosa dei Led Zeppelin e l’ispirazione a”… . Basta. Com’è sto disco in confronto a uno dei White Stripes? Sentite, ma che io vi vengo a chiedere che differenza c’è tra la pasta alla carbonara di vostra zia e la cotoletta alla milanese che vi cucinate voi? Sono buone tutte e due ma per ulteriori paragoni è meglio che apriate l’ultimo numero di Rumore. In “Broken Boy Soldiers” c’è del buon garage rock dal sapore molto anni sessanta e qualche sferzata di settanta più acida, dettata da assoli sporchi, interrotti, brevi e avvelenati. Se da una parte ci sono dei buchi di qualità , come le canzoni più melodiche (in genere quelle dove canta Benson) che risultano noiose, stra inflazionate nel corso dei decenni, seppur solari e leggermente tendenti alla buona polvere del folk è anche vero che una perla come “Blue Veins” uno la potrebbe ascoltare per sei ore di fila anche tutta in reverse, tanto è bella.
Jack White è un buon artista. Dà vita a canzoni minimali di facile presa ma con qualcosa dentro di ben condito, salvo poi concedersi per qualche bel soldone e scrivere il nuovo jingle della Coca Cola (pausa per ricordare il testo “It is In You/ You Know It Is The Right Thing To do”…”. Minuto di vergogna”…). Ecco, Broken Boy Soldiers affascina ma non dura negli ascolti quanto uno si potrebbe aspettare leggendo in giro tutto l’hype del mondo. Il disco è come il nostro Jack. Intrigante, grande a primo impatto ma anche molto controverso. Sempre meglio degli Hard-Fi comunque.