Unica data italiana per questo tour dei Low Anthem, in una Milano di metà settembre che, grigia e umida, potrebbe tranquillamente essere scambiata per una città già precipitata in una serata di autunno inoltrato. E forse, però, ben si adatta a creare un clima intimo, quasi familiare…niente voglia di pogare o urlare, forse neanche di ballare, ma semplicemente, dopo una giornata di lavoro e stress e rotture varie, finalmente un po’ di relax. Così, invece di limitarsi a mettere nel lettore un semplice dischetto, perchè non andare a sentire qualcosa di piacevole e coinvolgente direttamente dal vivo, in uno dei tanti locali che, complice la ricchezza di concerti che da un paio d’anni sembrano aver coinvolto finalmente anche Milano, ospitano gruppi giovani, alle prime o primissime armi, con prezzi che un tempo non ci saremmo mai immaginati.
Anche stranieri, come i Low Anthem, che arrivano dagli Stati Uniti, dal Rhode Island, minuscolo stato incastrato tra il Connecticut ed il Massachusets, amici dai tempi dell’università e insieme, musicisti per scelta dal 2006. Non degli esordienti, quindi, con tre dischi all’attivo, tutti catalogabili in quel crogiuolo di suoni, che sempre più si declina con vari apporti, e che risponde al nome di Americana.
Se ne parli con un rockettaro o con un amante delle mode e dell’hype del momento subito vedi storcere il naso, e sentirti dire che palle, ancora country!. Sotto sotto è vero, perchè si tratta di un genere di nicchia, qui in Italia. Ma all’interno ci sono anche nomi notevoli, che hanno saputo ritagliarsi spazio e credito con gli anni…alcuni nomi per tutti i Calexico, i Giant Sand di Howe Gelb, i Willard Grant Conspiracy o gli ultimi arrivati, i Fleet Foxes, subito balzati agli onori delle cronache con la complicità di un suono che è stato arricchito con la piacevolezza di cori alla Beach Boys…e tanto altro, ovviamente..e tanti altri.
Questo il campo all’interno del quale anche i Low Anthem hanno deciso di stare, e mercoledì sera ci hanno deliziati con queste canzoni, semplici e dirette, che giocano tutto il loro fascino se lo stato d’animo di chi le ascolta è pronto a ricevere dolcezza e intimità . E il pubblico presente sembra aver molto apprezzato le atmosfere create dai tre ragazzi, Ben Knox Miller, Jeff Prystowsky e Jocie Adams, tutti polistrumentisti. Così, con molta naturalezza, si alternavano agli strumenti presenti sul palco, canzone dopo canzone, senza che lo spirito di ciascuna ne risentisse. Suoni prevalentemente acustici, un paio di brani più ‘urlati’ degli altri, qualche pezzo che svetta sugli altri, quando l’impasto delle voci dei tre tesse melodie che sono già entrate nel nostro cuore, come per “To Ohio”, “Charlie Darwin”, “Cage The Songbird” o la stupenda “Cigarettes”,” Whiskey & Wild”, “Wild Women”.
Peccano forse di inesperienza, sul palco, non si capisce se per timidezza congenita o per scelta di basso profilo, per mantenere il clima della serata quasi domestico. Certo, vista l’età , hanno tutto il tempo di maturare, di crescere anche nella capacità di trattenere il pubblico, così come sono senza dubbio cresciuti nel corso dei tre album pubblicati. La dimensione live ha ormai preso un peso tale, all’interno degli ingredienti per diventare un grande musicista, che senza questa capacità sarebbe difficile farsi conoscere e portare la propria musica in giro con successo, gratificazione e il giusto riconoscimento economico.
Quanti gruppi ci hanno deluso dal vivo dopo dischi promettenti? Non loro, vi assicuro, e al loro ritorno mi troveranno in prima fila.
Credit Foto: Paul Hudson from United Kingdom, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons