Presentando il disco nuovo, la stessa De Biasio aveva parlato di un disco contemporaneamente luminoso eppure oscuro. Ma quello che più lasciava presagire cambiamenti importanti era la frase della cantante che si dichiarava bisognosa di solitudine, di un ritorno alle radici di creatività e a materiali molto elementari, ecco perchè il nuovo album era nato in una stanza scarna, con poche strumentazioni e nemmeno una luce o il riscaldamento: un ritorno alla primitività , se vogliamo usare una parola forte.
Tutto questo si ritrova assolutamente in “Lilies”, in cui la catalogazione più frequentemente usata per Melanie, ovvero ‘jazz’, va un po’ a farsi benedire e a lei la cosa non disturba affatto. Qui siamo in territori basilari e spartani: la voce, magnifica, suggestiva, incantevole e capace di dettare la linea melodica anche quando intorno c’è solo ritmo, che indica la luce e ballate crepuscolari fatte con pochissimi ingredienti strumentistici.
Va al cuore del suono Melanie De Biasio senza che intorno ci sia troppo a confonderci se non soluzioni minimali che a tratti più che al jazz potrebero rimandare al trip hop (“Your Fredoom Is The End Of Me” pare davvero una cartolina dalla Bristol dei tempi d’oro), oscuro e capace di appiccicarcisi addosso. Inquietudini sottili, cupezze che farebbero la gioia del maestro Lynch (“Lilies” ha un sottofondo lontanissimo, sotto la voce e il piano, che rimanda all’atmosfera urbana decadente e malata di “Eraserhead” per non parlare di quel profumo di blues/noir decandente, da Roadhouse, nel finale di “And My Heart Goes On“), fili sottilissimi eppure indistruttibili che avvolgono l’ascoltatore, ipnotizzato dalla ritmica ossessiva di “Let Me Love You” o dalla sulfurea e tenebrosa “All My Worlds”.
Bastano davvero pochissime cose a Melanie De Biasio per creare empatia solidissima e profonda con chi la vuole ascoltare, in un disco all’apparenza “vuoto”, eppure in realtà così pieno di sentimenti. Emozionante.