Un esordio tardivo ma urgente quello del poliedrico artista milanese Luca Lezziero che giunge a pubblicare il suo primo album con solo cognome, quando la soglia dei cinquant’anni è già stata superata. Lo fa in sordina se vogliamo, senza molti proclami, senza far rumore, in tutti i sensi, se è vero che a predominare solo sonorità prettamente acustiche e lievi, ma non per questo si deve pensare si tratti di un lavoro “minore”.
Proprio perchè per la prima volta Lezziero ci mette la faccia, paiono affreschi assolutamente sinceri e personali quelli tratteggiati in questo disco e meritevoli di attenti ascolti.
Indubbiamente si percepisce il mondo, non solo sonoro, cui attinge il Nostro e non sembra discostarsi molto dalle (belle) cose che già in passato aveva partorito in alcuni progetti nei quali la sua mano era stata preponderante (alludo in particolare alla fruttifera collaborazione con i La Crus) e non è un caso che dietro le quinte di un lavoro minimale ma comunque cesellato ottimamente nei dettagli come questo vi sia proprio quel Cesare Malfatti, che del duo milanese emerso negli anni ’90 era artefice principale a livello musicale.
Malfatti tuttavia, se è vero che ha curato la direzione artistica di questo esordio, suonando vari strumenti, ha lasciato giustamente che ad emergere fossero i contenuti, le canzoni di Lezziero, privandole di sovrastrutture e lasciandole pressochè integre, quasi scarne.
Il risultato è che la voce è molto in primo piano, una voce che non conoscevamo, e che ci arriva chiara, rassicurante, calda, in episodi come l’iniziale “Parole corte” o “La bella illusione”, che spicca anche per un testo tra i più poetici del lotto (all’inizio accennando alla poliedricità di Lezziero mi riferivo anche alla sua attività di paroliere e poeta, culminata in due pubblicazioni).
Gli inserti di elettronica che fanno capolino qua e là sono assolutamente funzionali alle vesti date alle canzoni, sono sfumature che le vanno a colorare, assicurando quel senso di omogeneità che prevale all’ascolto.
La poetica verte sui rapporti interpersonali, sulle “piccole cose”, che poi sono quelle che ci riguardano tutti: emblematica in tal senso è “Oi che sarà “, che si apre in uno dei ritornelli più efficaci della raccolta. In generale ciò che mi ha convinto di questo disco è che ci sono delle belle linee melodiche, i brani non sono mai “pesanti”, come capita sovente di ascoltare in dischi di questo ambito. I testi, ben costruiti, arrivano diretti, anche quando sono metaforici, come in “Credimi” che di contro assume contorni molto personali quando canta: Credimi, siamo stati così ingenui io e te/questa vita che ci prende e che ci porta via con lei/e la sola via d’uscita/è trovare le parole/quelle giuste quelle vere/per potersi ritrovare insieme.
La canzone che meglio a mio avviso rappresenta il disco è la romantica “Soltanto un istante”, mentre “L’estate che non c’è”, unica in cui Malfatti ha composto la musica su testo dello stesso Lezziero, non sfigurerebbe in effetti in un disco come “Dietro la curva del cuore” dei già citati La Crus.
Merita una citazione anche la rivisitazione in chiave acustica di uno dei brani più interessanti degli Scisma di Paolo Benvegnù: “Jetson High Speed”, contenuta in “Armstrong”, che qui Lezziero libera dalle frenesie elettro-rock presenti nell’arrangiamento originale del gruppo bresciano e ce la riconsegna a sua immagine e somiglianza, con un omaggio sentito e sincero.
Un disco che pare un’opera di un piccolo artigiano della parola e del suono, che presumibilmente faticherà a farsi largo nel novero delle millemila uscite discografiche ma che potrebbe regalare delle piacevoli sorprese per la sua genuinità e qualità .