Chi vi scrive adora le chitarre e le melodie immediate, ma, lasciatemelo dire, di fronte a simili delizie mesmeriche e suggestive non si può che battere le mani con convinzione e totale devozione. Il sodalizio tra Laura Marling (fanciulla che, da solista, si muove su coordinate decisamente folk) e Mike Lindsay (membro dei Tunng) è di una bellezza così cristallina e ipnotica che lascia senza fiato, capace di superare un approccio che potrebbe sembrare ostico alle orecchie degli ascoltatori, purtroppo abituati a ‘skip’ troppo veloci nella fruizione della musica di oggi giorno.
Il lavoro “synthetico” e digitale di Lindsay è sublime, un morbido tappeto di rara delicatezza, mentre la Marling vi sia adagia in modo cangiante, diventando tanto Kate Bush quanto Joni Mitchell, catalizzatrice e veicolo di emozioni perchè assolutamente in grado di farlo, non ponendosi limiti. Squisita avanguardia pop elegante e mai fine a sè stessa (andiamo oltre al semplice e riduttivo concetto di “folktronica”, c’è ben di più qui), liquide magie che trovano sempre frammenti e particolari nuovi con l’avanzare del minutaggio dei brani. Certo, non tutto è immediato, non tutto è così facile (ma nessuno ha detto che lo sarebbe stato, nemmeno i due protagonisti nelle interviste di rito, che hanno hanno spesso citato la parola ‘surrealismo’ come influenza), eppure, superato l’impatto del primo ascolto, ecco che la scintilla non può che scoccare. “Rolling Thunder” è esempio da pelle d’oca: partenza delicata e leggera, quasi sospesa, poi ecco arrivare in successione l’accenno ritmico, un flauto, vocalizzi da sirena, la battuta elettronica che si fa più importante e il suono che diventa più corposo. In 4:29 tutto ci è cresciuto sotto gli occhi in modo così naturale che solo dopo 3-4 ascolti ci rendiamo conto del climax sublime che abbiamo attraversato.
Sarebbe stucchevole citare la particolarità di ogni brano (certo che “Curse Of The Contemporary” se la batte tranquillamente come uno dei pezzi dell’anno, come se ci fossero dei Joyzipper in paradiso che hanno perso la loro entità fisica e sono diventati purissimo spirito pop) : nel corso del disco il suono viene come modellato e plasmato da mani educatissime, mentre tutto cambia e muta, come se da tappeti ambient passassimo agli Air più eterei, per poi trovarci dentro la colonna sonora di “Drive”. Che meraviglia.
Solo 6 brani (l’ultimo non lo considero tale) e un minutaggio un po’ troppo ridotto (e questo fa togliere mezzo punto al disco), ma quello che conta è una piacevolissima sensazione che ci avvolge, ascolto dopo ascolto, e ci rimane dentro per lungo, lungo tempo.