Angelique Kidjo
Oyo

Dopo due anni torna Angelique Kidjo. Sì, lo so, dovrei essere entusiasta di un’artista che si è guadagnata la stima di Peter Gabriel, di Brandford Marsalis, che ha il coraggio di andare oltre la musica Africana, per abbattere gli steccati tra la musica del Terzo Mondo e quella Occidentale, che si sfroza di sposare un’idea di musica senza barriere e senza preconcetti, aperta alle sperimentazioni. Dovrei provare simpatia e stima per l’ambasciatrice dell’Unicef (cosa che non mi riesce difficile a dire il vero) e nutrire aspettative altissime nei confronti di questa nuova uscita, mentre scorro i nomi dei prestigiosi collaboratori (Diane Reeves, Roy Hargrove, John Legend) chiamati a raccolta dall’artista Beninese per questa nuova creatura musicale denominata “Oyo”.

Purtroppo ciò non accade. L’apparente eterogeneità  del disco appare, ahimè, come un puro esercizio di stile, talvolta raggiungendo punte di stucchevolezza notevoli (la patinata “Samba Pa Ti” di Santana, accompagnata da un flebile Hargrove), a volte lambendo la sufficienza (la trascurabile resa del classico di Mayfield “Move On Up” con un John Legend che fa il suo dovere), talvolta il compitino ben riuscito (l’accorata “I’ve got dreams to remember”, qui cantata quasi senza trasporto) o vergognosi scivoloni (una “Cold Sweat” che il Godfather farebbe meglio a non ascoltare), che neanche il riuscitissimo duetto con la divina Diane Reeves alle prese con il travolgente blues della soul sista numero uno, Aretha Franklin, “Baby I Love You”, riesce a risollevare.

La favolosa “Zelie” posta in apertura disco, scritta dal musicista Belle Bellow del Togo o la dolce nenìa dedicata a Miriam Makeba, “Lakutsn Langa”, lasciano purtroppo l’amaro in bocca e fanno sorgere spontanea una domanda: non sarebbe stato meglio un disco più ‘tradizionale’ e meno modaiolo della serie ‘World Music impacchettata e sigillata ad uso e consumo delle masse Occidentali’? La speranza, come si dice, è l’ultima a morire.

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