I marciapiedi ancora umidi; l’odore dei quarter-pound dei fast-food; l’aria che preannuncia la pioggia; lo spostarsi da un pub all’altro, da una pinta all’altra, in cerca di un po’di sollievo per la nostra solitudine; il camminare in una città  (“The City”), Londra forse – ma potrebbe essere una qualsiasi città  anglosassone (Cork?); le luci dei semafori, le macchine che passano e sembrano ferirci col rumore dei loro motori e la loro indifferenza. La nostra storia d’amore è appena finita (“It’s Over”) e cerchiamo un rifugio nella “musica ottimistica per tempi pessimistici” di Mike Milosh. Col suo secondo disco, Meme, il canadese di Toronto ci spinge a sospendere ogni azione e concentrarci su noi stessi: sui più piccoli rumori notturni della nostra insonnia, che hanno il suono dei Telefon Tel Aviv (“Couldn’t sleep”); sui timidi tentativi di ricominciare, sulle note di pianoforte di “I’m Trying”, che fanno pensare alla Barbara Morgenstern del recente “The Grass Is Always Greener” (“I’m trying”); sulla voce sensuale – che ci ricorda Goldfrapp – di avventure senza futuro, che non riesce a colmare il nostro vuoto (“You Fill Me”); e sul fatto che, ri-cominciare ad uscire dal rifugio à -la Four Tet della nostra stanza (“Playing With Yen”), e separarci dal nostro laptop, non è mai facile.

“Meme” consiste di undici tappeti sonori che tracciano, su una mappa esistenziale, il ritrovarci improvvisamente soli, attraverso segni di percussioni, scratch, piano e liriche semplici quanto ipnotiche; sono canzoni da ascoltare seduti sull’autobus o sulla metropolitana, per riposarci un po’ dalla fatica dell’esistenza. E anche se il rischio è quello di fermarci all’immobilità  dei nostri pensieri, una volta finito il disco, riprenderemo a girare per la città  con una grande gioia dentro.