Quelle di Regina Spektor sono le storie che i libri non riportano; che la Bibbia non menziona, nemmeno una volta. Sono storie da street-mart, che si ascoltano per le strade di New York, fermandosi in qualche fumoso bar del Bronx; o alla fermata dell’autobus o seduti in metropolitana; oppure nel soggiorno di qualche amico, davanti ad una tazza di long black coffee; e rimembrano vecchie ferite, che ancora fanno male; e quel campo in cui si giocava da ragazzi, dove ora sorge un supermercato.

Sono sogni di balene, orche e gufi, stipati nelle stanze polverose di vecchi hotel che puzzano di fumo; dove i pusher e le prostitute la fanno da padroni; e ci sono i letti che vibrano e le Bibbie nei cassetti dei comodini. Per raccontarle senza annoiare, sono necessari l’epica del coraggio e l’eccentricità  di certo cantautorato, ingredienti entrambi di cui l’artista russo-americana, in questo terzo album che segna il suo passaggio ad una major, sembra ben fornita – senza per questo che la sua voce perda in sensualità . A volte i suoi umori richiamano i ghiacci di Bjork ed Emiliana Torrini (“Après Moi” e “20 Years Of Snow”); altre il beat degli Psapp (“On The Radio”); altre ancora le atmosfere jazzy di Norah Jones (“Field Below” e “Lady”); c’è perfino un passaggio per i ritmi più ruvidi dei Juliette and the Licks (“That Time”).

In definitiva, come concedersi una lunga passeggiata per le strade della Grande Mela, assaporandone i profumi e gustandone i suoni. Ma l’atmosfera da New York cafè di Begin To Hope potrebbe ingannare; o quantomeno lasciare interdetti – inizialmente – i puristi dell’indie.