Il primo album dei Bloc Party era figlio della Londra di inizio millennio: c’era la voglia di ballare e lasciarsi andare del Sabato sera; la sicurezza inglese di vivere su un’isola lontana dai problemi e dalle sofferenze degli “altri”; la spensieratezza di rinchiudersi in un pub/club. Il secondo album della band di Reading è invece figlio illegittimo degli attentati alla metropolitana della City e del terrore che esso ha generato. Il Sabato sera e lo “sballo” sono ormai alle spalle.
Il presente è una triste Domenica pomeriggio in cui il malessere non vuole passare. A Kele Okereke e soci non resta quindi che vincere la loro indecisione middle-class ed andare a caccia di streghe. Le canzone che ne escono – direttamente dall’uomo della strada – sono più riflessive, le liriche più ciniche ed amare che mai. C’è un senso di delusione nell’uscire per strada; tutte le persone appaiono come nemici; il terrore è ovunque. Gli arpeggi a ricalcare il suono delle tastiere sono più frequenti che in passato, nonostante si cerchi di seppellirli sotto l’incedere delle percussioni.
I brani però stentano a decollare; si trascinano uno dopo l’altro quasi controvoglia, con l’indifferenza di chi è stato educato dalla televisione. La batteria perde la spontaneità di “Silent Alarm”; le chitarre sono meno penetranti e decise. L’ascoltatore – ed i musicisti – sembra rimanere impietriti dallo stesso terrore di chi – quel giorno – ha visto in faccia la morte.
Non gli resta dunque che rimuginare sul recente passato: gli episodi che convincono di più sono infatti quelli più istintivi e rabbiosi – flashback di un divertimento che sembra svanito nel nulla (su tutti, “Hunting For Witches”) – concentrati nella prima parte del disco. I quattro inglesi si accontentano – purtroppo – di essere “carini ed annoiati”: dicono di non poter essere feriti, ma non riescono a reagire.