Troppe volte ci siamo bevuti la notte con lunghe e amare sorsate che sembravano non finire mai. La cosa incredibile non è questo cielo così malato e carico di grigio e di nuvole e di pioggia e di bestemmie che stanno per frantumarsi giù sull’asfalto. No; la cosa completamente fuori di testa è che lo amiamo più di noi stessi e staremmo ore a contemplare tutti i punti interrogativi personali che si celano dietro la compatta freddezza di una tempesta che sta per arrivare. Lascia andare tutto, apri le braccia, pensa all’amore e se ti va scrivici su una canzone. Anzi, pensa alle creature che più ti hanno accarezzato l’anima e di canzoni scrivine qualcuna in più. Che siano belle. Che siano fottutamente lente e sentite, acustiche e che abbiano la giusta dose di veleno sulla punta, così che quando mi punterai addosso il tuo odio sarà  per l’ultima volta. Niente cambia. Tutto cambia. Voi non siete più niente per me. Anzi siete talmente speciali che i girasoli dovrebbero cambiare astro di riferimento quando cominciate a sorridere.

La musica si piega ai tuoi stati d’animo. Se oggi eravate in giro in vespa con i calzoncini corti e il ritmo più assordante nel cervello questo disco potevate usarlo solo come supporto per la famosa gamba del tavolo che traballa. Ma dato che oggi io non voglio ascoltare niente se non persone che si lamentano per delusioni (e che lavano col sapone dentro sette note tutta la loro frustrazione per ciò che è andato perso) allora, vaffanculo, questo disco per me vale venti stelle anche se, oggettivamente, in fondo è cosa trita e ritrita da secoli. Niente a che vedere con l’elettricità  degli Stereophonics, con le distorsioni, con la birra e i cori da stadio (accostamenti che comunque al sottoscritto sono sempre piaciuti, guarda caso a partire dal 1995 circa”…).

Quattro accordi, un giro stupido in la minore se vi va bene e una slide lentissima “dietro”, tanto per far sembrare ancora più lunga la notte di cui si parlava all’inizio. Le parti di slide allungano la notte. Ora lo sapete. Cercate di non dirlo troppo in giro. Niente batteria, niente casino. Fa già  troppo rumore l’aria che passa attraverso la ferita tutta immaginaria (ma neanche troppo immaginaria) all’altezza dello sterno. Il vento fischia forte. Di sicuro comunque non rimargina. Qua si tratta di una chitarra elettrica suonata dolcemente come si fa in genere con una acustica, di un tizio che ha una voce da leone intossicato dalle sigarette e che pare non tirarsela più di tanto sta volta. Uno che vorrei ringraziare di persona per alcune canzoni che continuano a girarmi in testa a distanza di anni. Uno che pare essersi chiuso in camera per piangere e ha deciso di lasciare impressa su quei fogli bagnati anche più di un’idea, piegata a forza sotto un sentimento troppo infame. Questo disco ti ricorda che tutto brucia lentamente.
Si tratta solo di adeguarsi.