In ogni paesino che si rispetti c’è sempre il tipo bislacco, quello un po’ fuori di testa. Lo riconosci subito se lo incontri; non ha lo sguardo dimesso e rassegnato di chi vive nella provincia, ma è curioso, poco propenso ad essere come gli altri e di solito è contento. Benjy Ferree pare essere uno dei tanti non inquadrati americani, quelli che abitano in piccole cittadine inghiottite da spazi sterminati e solitudini immense. Attore mancato, scarto di Hollywood, poche stelle e tanta amarezza, ma per fortuna una chitarra da stuzzicare con un certo talento. A guardarlo di primo acchito, con quella barba fulva folta ed incolta, l’aria trasandata da campagnolo, non gli daresti due lire in mano. E sbaglieresti di grosso. Già dall’attacco di “In The Countryside”, si comprende il tutto. Una rivisitazione del genere country per via elettrica spogliato della stucchevole melassa che lo ricopre con deliziose trovate e leggerezza compositiva, non è cosa da tutti i giorni. Mentre la si ascolta è facile immaginare Jack White a passeggio in un campo di grano, stuzzicadente fieramente piantato nell’ angolo destro della bocca, mentre spensierato ed immune da tutto canta lievemente alticcio i suoi pezzi migliori.
Ovunque c’è ispirazione e grande intuito melodico, come nella rockeggiante “Dog Killers!” dal sapore vagamente eelsiano, attraversata da un senso di irridente follia. Ascolto dopo ascolto ciò che stupisce è la marcata personalità che Benjy imprime ad ogni composizione; merito anche dell’impeccabile produzione di Brendan Canty dei Fugazi, che ben sa cosa significhi tracciare una rotta definita senza paura di essere sgradevole a chicchessia. “Leaving the Nest” pare essere la colonna sonora perfetta per le avventure di Huckleberry Finn, per scorribande tra praterie polverose, nuove cose da scoprire ogni giorno, lunghe passeggiate, giri in battello. Proprio per questo il nostro cantautore da l’idea di essere stato uno di quei bambini iperattivi continuamente attratti dalle meraviglie della natura e da tutto ciò che li circonda. Delizioso il violino che apre le danze in “The Desert”, altro gioiellino che infarcisce un album senza cadute di tono, compatto, divertente, allegro, certamente rock, esuberantemente folk, irriverente e scanzonato nell’incedere.
Punta di diamante del disco è “Private Honeymoon”, strepitoso valzerino malinconico, condito da violini e contrabassi nostalgici pieni di ritmo danzante. Canzone strepitosa, composta con classe e cantata con la solita voce pulita e profonda, ferma e melodica, giovane e nitida, degna di un folk-singer di razza. I coretti sussurati in stile anni “’50 di “Holliwood Sign”, divertentissima nel suo insinuarsi sincopato, altro non sono che la prova dell’evidente assorbimento da parte di Benjy di tutta la tradizione musicale americana, che poi sputa fuori riproponendola con sonorità accattivanti e modalità attuali.
Passa il tempo e il disco gira veloce, incurante di me e di tutto. Eppure regala belle sensazioni, anche attimi di gioia diffusa e rassicurante, la stessa che si prova nel vedere un vassoio pieno di paste d’ogni genere, babà , cannoli, teste di moro, sciù al cioccolato, zuppe inglesi, cassatine e chi più ne ha più ne metta.
Nessun melodramma in queste piccole storie raccontate per il gusto di farlo, solo un pugno di ottime canzoni americane d’inizio millennio. Fossi in voi non me le lascerei sfuggire.
2. Dogkillers
3. A Little At A Time
4. The Desert
5. Private Honeymoon
6. Leaving The Nest (It’s A LOng Way Down)
7. Hollywood Sign
8. They Were Here
9. Why Bother
10. In The Woods