Viviamo tempi asfittici, senza stimoli, camminiamo e ci sbattiamo in scatole vuote. E pensare che trent’anni fa il mondo bruciava di fermento. A volte bruciava e basta. Anni difficili, complessi, duri, fatti di sguardi vivi e feroci. Musicalmente gli anni ’70 hanno dato moltissimo, se non quasi tutto. Il problema nasce laddove una semplice nostalgia si trasforma in devianza anacronistica. E non c’è cosa peggiore di scimmiottare comportamenti nella fatua illussione di riproporre modelli bocciati insidacabilmente dalla Storia.

Sarebbe bello ritornarci, ma sfortunatamente non è possibile ed allora si vive di ricordi, di cimeli più o meno significativi e di White Stripes. I fratelli (sposi, cugini, amanti o cosa?) sonici di Detroit non sono certo i primi e non saranno gli ultimi a rimescolare e frugare tra le note del periodo che fu. Ma giù il cappello dinanzi a Jack White, che con passione e rigore da filologo ripesca tra tutti i suoi vecchi vinili, ne tira fuori lo spirito e l’ardore per poi ripassarlo attraverso un’attitudine tutta moderna di scrivere canzoni.

E quello che ne esce fuori è un grande album, forse il migliore di tutta la loro carriera. Al di là di storcimenti di naso che suonano un po’ preventivi e snobbistici, i due Stripes mettono sul tavolo un disco esplosivo, compatto, guidato dalla chitarra di Jack, vero faro nella nebbia, e soprattutto disegnano un’opera fatta di canzoni tiratissime e levigate in ogni particolare. Fulminante la partenza, atmosfere torride, sbalzi tellurici, vorticose sciabolate si abbattono sull’incandescente chitarra di White, uno che sa suonare come pochi. La voce tremolante, abrasiva, sfigurata dall’acido, eppure così ammaliante, fa il resto ed è una manna per lo spirito indomito di qualsiasi rocker che si rispetti.

Le cose bisogna viverle addosso, bisogna respirare e vedere i posti per capirli e mangiarseli con l’anima. Questo avranno pensato prima di volare a Nashville, punto incandescente del country e del folk made in Usa. E bene hanno fatto, a giudicare dall’iniziale ‘Icky Thump’, una strisciata bruciante, con le dita di White che vanno alla stessa velocità con cui una gallina becca il riso, il tutto per perdersi tra riverberi psichedelici con microfoni per la batteria posizionati anche a sei metri di distanza per dilatarne il suono, o da ‘Rag and Bone’ dove risuonano gli Zeppelin che furono.

Cavalcate da ‘Spaghetti western’ come in ‘Conquest’, cover di un pezzo degli anni ’50 di Corky Robbins tutta polvere e mariachi in salsa hard-rock, o insospettabili matrimoni con cornamuse e umori scozzesi che in maniera stupefacente s’arrampicano tra le note di ‘Pricky Thorn, But SweetlyWorn’, spingono veloce le goccioline di sudore che scivolano via durante il dondolio incessante nell’ascolto. E visto che un po’ di riposo va concesso a tutti buttatevi “nell’acustico con violenza” di ‘A Martyr For My Love For You’. E poi Meg sarà anche superflua, ma intanto picchia la batteria come un fabbro. Corna alzate al cielo, volume al massimo: Rock’n’Roll !!!!!!