Le luci in Piazza Castello a Ferrara si spengono poco prima delle 22.
Il cielo è ancora chiaro e le mura echeggiano riflessi rosati, ma lo sguardo di tutti è rivolto nella direzione opposta, verso il palco di Ferrara sotto le Stelle. Gli Arcade Fire si fanno precedere da un filmato di una bambina che da un podio urla parole incomprensibili, la sua immagine duplicata cinque volte su strani schermi a forma di oblò.
Poi entrano loro, Win e Règine e altri otto musicisti: ci sono basso, chitarre, batteria ma anche due violini, due fiati, e un vero organo a canne montato sul retro del palco. L’attacco è subito una scossa con “Keep the Car Running”, seguita a ruota da “No Cars Go”. Poi è un susseguirsi di incroci e cambi di strumenti, un’orgia sonora che deve fare impazzire i tecnici del suono nel tentativo di fare arrivare al pubblico ogni contromelodia degli archi, ogni colpo sui tamburelli e sugli xilofoni.
L’impressione è di un concerto che andrebbe gustato in uno spazio più piccolo e intimo dove gli strumenti possano risuonare senza bisogno di aggiuntiva amplificazione, uno spazio idealmente simile alla vecchia chiesa fuori Montreal dove gli Arcade Fire hanno registrato ““ in buona parte in presa diretta ““ “Neon Bible”, il loro secondo, bellissimo disco. L’impatto emozionale qui a Ferrara è comunque elevato, c’è un’elettricità che promana dal palco anche quando i volumi si frantumano nelle esplosioni orchestrali, nella magia di chitarre post-punk che si integrano armonicamente con organi liturgici e musica popolare; come una banda di paese trasformata in un ensemble di musicisti d’avanguardia, come un gruppo di studenti di conservatorio che si ritrova a fare caciara nel salotto di Win e Règine. Loro due, marito e moglie, sono perfetti padroni di casa e mettono le voci e le canzoni, giostrano tra chitarre, tastiere batteria mentre attorno tutti gli altri si lanciano senza freni nel carnevale rutilante delle bibbie al neon che si illuminano rosse dietro di loro, perfetta metafora di uno show ambizioso ma non solenne, eccessivo eppure lontano da ogni idea di kitsch.
Il nuovo disco viene eseguito quasi per intero: “Black Mirror”, “Intervention”, “Ocean of Noise”, una bellissima “Antichrist Television Blues” che esce trasfigurata e irresistibile nell’esecuzione live. Se gli arrangiamenti non si discostano troppo dall’album è l’energia, l’entusiasmo, la schiettezza dei suoni privi della patina di una produzione a fare la differenza. Quasi un’ora e mezza di regular set si chiude con il pubblico che prosegue da solo un coro di oooh-oh-oh-oh sulle note di “Rebellion”, fino a quando gli Arcade Fire risalgono sul palco e si inseriscono nuovamente su di esso con gli strumenti, per suonare poi l’ultima coppia di pezzi: “My Body Is a Cage” e “Wake Up”, che chiude il sipario tra i saluti brevi ma affettuosi della band al pubblico di qualche migliaio di persone convenuto da tutta Italia.
Un concerto come questo ha oggi pochi paragoni e sembra davvero rappresentare meglio di tutti gli altri la contemporaneità musicale.
Una miscela originale dove gli abiti retrò e le influenze new wave si tramutano da citazionismo in capacità di definire il nuovo e l’attuale. Se le cose andranno nel migliore dei modi possibili, da questo nascerà un movimento di nuovi gruppi che rispolvereranno i violini e le fisarmoniche dalle cantine e proveranno a usarli insieme alle chitarre elettriche e alle loro canzoni, ragazzi per i quali gli Arcade Fire rappresenteranno, come dieci anni fa i Radiohead, un modello con cui confrontarsi. Ragazzi come gli italiani A Classic Education, chiamati ieri sera ad aprire ottimamente le porte della serata. Sempre nel migliore dei mondi possibili gli Arcade Fire, dal canto loro, si evolveranno in qualcosa di molto diverso, conservando la capacità di scrittura e la naturalezza nel mettere insieme strumenti e suoni, senza indulgere filologicamente nella strada che in due dischi li ha portati ad essere qualcosa come la migliore band di questo momento. Ma se anche non fosse il migliore dei mondi possibili, se i ragazzi nelle cantine d’Italia continuassero a suonare punk-rock e se gli Arcade Fire non sapessero innovare ulteriormente il loro vocabolario musicale, rimane il fatto che stasera ho visto quello che è facile definire il mio concerto dell’anno.
Guy Aroch Photographer