Avete presente Jack Black in ‘School Of Rock’? Sognava di arringare orde oceaniche di sudici rockettari con mastodontiche schitarrate in spregio a qualsiasi umore riflessivo e depressivo da shoegazer di lungo corso. La fine fatta da Jack nel film non è stata delle migliori, ma c’è chi invece, giunto all’ottavo album, questo sfizio se lo leva senza rischiare di ritrovarsi ad insegnare storia e geografia in una classe di quinta elementare. Di dischi come questo ogni tanto se ne sente l’esigenza, selvaggi, liberi, sfacciati, galoppanti, rutilanti e senza un attimo di respiro. Confesso di aver sempre subito un certo fascino da parte dei MSP, pur non essendo un loro accanito fan, forse perchè irruppero con il loro più bel disco di sempre in un periodo di frastuono sonoro ed emotività  sparsa al sole, facendomi scoprire il rock da un’altra angolatura in quegli anni febbricitanti di musica stupenda ed emozionante come raramente si è vista.

La tigre qui ruggisce eccome, infuocando casse ed orecchie, con la decisa e melodiosa voce di James Dean Bradfield ad impollinare i cuori di nostalgici rockettari, in particolar modo di chi ha amato certa musica anni ’80, a partire dagli Europe fino ai Bon Jovi (‘Send Away The Tigers’ e ‘Underdog’ su tutte), giusto per intenderci. Musica quasi da stadio, ma allentata nella sua portata tamarra da testi intelligenti e da un certo gusto malinconico nella composizione, che elevano i Predicatori gallesi nettamente al di sopra della media. Se poi riescono anche nel miracolo di incastrare a perfezione la voce e la sensualità  di Nina Persson tra virili e muscolose trame chitarristiche (‘Your Love Alone Is Not Enough’) il dado è tratto e giù il cappello. Echi di Oasis (‘Indian Summer’) e di tutte quelle band che avevano, hanno ed avranno una tremenda urgenza di dire e di fare si avverte costante, così come il divertimento esagerato che i Tre provano nel suonare insieme dopo quasi vent’anni di onorata carriera, come se fosse la cosa più naturale del mondo scrollari di dosso ogni pressione o di gettare via il ricordo di chi se n’è andato all’improvviso (alla fine non si è mai saputa la fine fatta da Richie James Edwards che abbandonò all’improvviso la band senza lasciare la minima traccia di sè. Tuttavia si ipotizza il suicidio).

Commovente la veemenza che si respira in ‘Autumn Song’, dura ballata senza mezzi termini, che corre dritta verso il cuore pulsante di ognuno di noi nitrendo su di uno strato di chitarre emozionante. Un disco che ha tutto il sapore della folata di vento alzata dall’ala che fugge via sulla fascia dopo una fulminea finta di corpo. Lasciatevi incantare dal dribbling e consolatevi col fatto che non sentirete mai nessuna di queste canzoni in Grey’s Anatomy. Una bella soddisfazione, no?