Lo sussurò che era ancora notte fonda: Non— ho— più— paura. Scandì le parole con la pudicizia dei bimbi interrogati all’improvviso, fece fossette e dileguò un sorriso come una sciabolata di luce ferma l’istante oscuro. Nero davanti agli occhi, cicaleccio di grilli tra i campi. Zig zag di lucciole creavano architetture invisibili e fragili, linee sottili per un palcoscenico di silenzio e vaghezza mostrata come carne macellata. Non aveva più paura. Quanta certezza usciva dai suoi occhi. Le avresti affidato ogni cosa in quella sera di settembre.
Ci stendemmo in mezzo al prato immenso che pareva un oceano. Fumammo ed io ti raccontai quello che vedevo tra le nuvole. Tu mi ascoltasti, ridesti un po’, mi dicesti quello che ci vedevi tu. Ore e ore. O minuti e minuti. Il tempo era in noi e quello fu un andare infinito. Oggi ti rivedo per dirti che se guardassi ora il cielo non ci vedrei nient’altro che quello che c’è. Ma tu, i riccioli biondi, li hai sempre. Ed i Band Of Horses ti fanno ancora tremare i polsi, come se non ti bastasse il sorriso che gli hai stampato per sempre. Certi ricordi si fissano nella mente, polaroid irripetibili, istantanee che echeggiano nella mente per poi ritornare di colpo cambiate, brutali, sospese tra soffice sogno e crudezza della carne.
Lì in mezzo, in fragile equilibrio, camminano Ben Bridwell e soci, ancora in gran forma, a solo un anno di distanza dall’album che fece scoppiare nell’aria ‘The Funeral’, fragoroso come un petardo sparato in montagna. Stavolta la sensazione è che, nonostante manchino i picchi assoluti raggiunti in certi passaggi di ‘Everithing All The Time’, ci sia maggiore compattezza, più convinzione nel voler realizzare un album piuttosto che una serie di singoli slegati. Le coordinate sono sempre le stesse, accelerazioni rock, una voce al perenne inseguimento della cherubina voluttà alla Doug Martsch, suoni puliti come diamanti, tremori che echeggiano come urla dal fondo di una caverna. Tutta l’ansia si fonde nella soluzione più semplice, un impasto genuino di chitarre rock malinconiche, nostalgiche e ruvide mentre accarezzano sogni pop caramellati tra lividi e barbe infoltite dalla solitudine. Partenze che promettono grandi cose (“Is There A Ghost”), sorpassi azzardati (“Ode To Lrc”) poi calma country e spinotti inseriti in querce secolari con visione di mucche al pascolo (“Detlef Schrempf”). L’unico appunto da fare sarebbe quello di una mancanza di discontinuità con l’album d’esordio. Ma per ora non fa niente: anche se per poco anch’io stanotte chiudo gli occhi e bisbiglio: non—— ho—– più—- paura.
Credit Foto: Christopher Wilson