[ratings]
Vediamo se mi ricordo un po’ di chimica: prendiamo gli Archie Bronson Outfit, mettiamoli in testa ad una colonna cromatografica impaccata con vetro abrasivo (per gli scienziati: gel di silice), usiamo come eluente acido muriatico (per gli scienziati: acido cloridrico) e separiamo i componenti la miscela. Scherzi a parte, i due, di ritorno e stanchi dal tour di “Derdang Derdang”, si vanno a rinfrescare nella campagna del Berkshire, montano nel granaio della fattoria di un amico uno studio di registrazione rudimentale (per gli standard odierni) con amplificatori e strumenti da un lato del locale e mixer a 16 tracce dall’altro, i microfoni appesi alle travi lassù. In capo ad un week-end, partendo dai testi, preparano i pezzi. Due vengono registrati nella prima settimana di lavoro, gli altri nella seconda settimana: ogni pezzo completo in due, tre takes, alcuni addirittura in una decina di minuti dopo averli preparati!. Non contenti del sound sporco, duro, ossessivo degli ABO, The Pyramids sono ancora più scabri, abrasivi, essenziali, martellanti, talmente low-fi che mi chiedo a cosa gli siano servite tutte quelle (16) tracce… Windett ulula e contorce le parole alla ricerca del suono primordiale e chissenefrega se non capisco il suo inglese. Pura energia brada, è comunque sorprendente quanti riferimenti uno riesce a trovare (che so, certo krautrock e persino drones alla Velvet Underground di Venus in Furs nel penultimo brano, “Manitou”, uno schiacciassassi onirico e a suo modo assurdamente delicato). Chissà se Arp e Bishop ne sono consapevoli! Molto, molto, molto bello. |
||||||
|