30 anni di onorata e frammentata carriera, un cofanetto di b-sides e hits del passato a celebrarli, e un disco di inediti, come a dire, se qualcuno avesse dubbi, i Tuxedomoon ci sono ancora e sul serio.
“Vapour Trails” è qui per dimostrarlo, seppur con l’iniziale sospetto che sia soltanto uno stanco e polveroso tentativo di sentirsi ancora nel giro della musica che conta, non come special guest da nostalgici e stucchevoli talk show televisivi della domenica pomeriggio, ma come consapevoli protagonisti, consapevoli di sè, di quello che si è stati, e di quello che probabilmente ancora si sarà .
à‰ il frutto dei numerosi progetti paralleli e solisti, che negli ultimi anni hanno sormontato l’attività della band, peraltro segnata da una singolare “diaspora”, che ha visto ogni componente dividersi tra Messico, Stati Uniti, Belgio e Grecia, ideale terra di riconciliazione, non solo perchè è in Grecia che il disco è stato registrato.
“Big Olive”, cantata parzialmente in greco, descrive una solare domenica mattina ad Atene, segno tangibile ed evidente che qualche musa ispiratrice o qualche non troppo immaginaria cerimonia ad alto tasso alcolico, è venuta a picchiettare convinta alla spalla di Steven Brown e Blaine Reininger.
Così è anche per “Muchos Colores”: più esotica, ma non meno mediterranea, non sarà certo un brano memorabile nella discografia dei Tuxedomoon, ma è di sicuro un più piacevole e più interessante episodio della successiva “Still Mall Voice”, convenzionale pezzo di stampo Bowiano, a riprova dell’evidente impossibilità di uscire indenni dalla freddezza dell’era berlinese.
I lati migliori del disco sono certamente i tentativi avanguardistici: “Kubrik”, con i suoi sax e i suoi effetti elettronici che si dissolvono in un estremista ambient da camera che rivaluta e rivede la colonna sonora di 2001 Odissea Nello Spazio, ma soprattutto “Epso Meth Lama”, impressionante mantra techno jazz (se mai può esistere qualcosa del genere), nove minuti di pianoforte impazzito, effetti elettronici, ritmica martellante e un misterioso ed inquietante mantra ripetuto in un coinvolgente crescendo sonoro.
Insieme a “Dark Temple”, meno riuscita ma cupamente sperimentale, lasciano intendere una certa voglia di sperimentare con un’elettronica più o meno minimale, che farà storcere nasi e quant’altro a certi fans di vecchia data (si consoleranno giustamente con l’ottima chiusura “Wading Into Love”), ma che certamente impreziosisce ed ispira ulteriormente una proposta musicale dotata nel bene e nel male, di uno spirito evocativo come poche altre.
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