C’era una volta Moby: puro, tosto, elettronico. Erano gli anni ’90.
Poi è arrivata la fine del secolo e Richard Melville Hall ha deciso di passare alla cassa ed ha sfornato un disco, che se non è un capolavoro è certo un classico sin dal primo ascolto: “Play”.
Moby ci ha anche riprovato, senza ripetere l’exploit, prima di prendersi una colossale sbronza (di quelle che non capisci più un cazzo ed è meglio se poi ti scordi tutto) per chitarre e sound wave con l’ultimo “Hotel”.

Per fortuna si è fermato un attimo ed ha deciso di raccogliere i cocci: ed ecco che torna ora, dopo un “Greatest Hits” dello scorso anno, con un album molto più dance di quanto ci ricordassimo. Non tanto tecnologico e scatenato come nei primi lavori, ma decisamente danzereccio: insomma più disco-music che house o techno. Con tutto ciò che questa scelta comporta. Il nostro newyorchese si rifà  particolarmente ad un immaginario kitsch, se non addirittura trash in molte occasioni.

Nonostante questi presupposti, il disco parte davvero bene: “Oh Yeah” è uno spettacolo di scarti soul ed incedere electro, indeciso tra Moroder o i Daft Punk. Anche la successiva “I Love To Move In Here” sembra buona, ma viene abbastanza rovinata dall’intervento rap del veterano Grandmaster Caz.

Se “257.Zero” appare un po’ come degli Swayzak più grezzi, è sicuramente “Everyday It’s 1989” ad alzare il tono dell’album: ricorda da molto vicino quei bellissimi funk elettronici di “Play” impreziositi da vocals femminili e nerissimi, esasperandone però la struttura ritmica per renderla adatta a notti lunghe e sfrenate. Abbassa un po’ i toni, pur muovendosi sulle stesse linee guida, la lirica “Live For Tomorrow”, una delle vette della prima parte dell’album.
Basta poco per riprendere fiato e subito si torna a livelli alti di adrenalina e sudore: “I’m In Love” è un enorme e trascinante climax electro-house di raro spessore. Strappa un sorriso invece “The Stars”, estasi massiccia da fine dj-set, goliardica e terribilmente kitsch. Ed è a questo punto che inizia la seconda parta del disco: si spengono le luci, si abbassa di poco il volume e Moby inizia a giocare di fino, regalando nuove perle a chi ancora non è stanco o non ha smaltito i drink e tutto il resto.

“Degenerates” si pregia di un battito soffuso mentre disegna panorami ambient che ricordano tanto “Play” quanto i Massive Attack o Brian Eno. “Sweet Apocalypse” è pura meraviglia: un eterno rotolare di drum-machine, pochi profondissimi beat riverberati minimal, leggiadri affreschi dance ambientali… Plastikman, Boards Of Canada e Krafwerk tutti insieme nello stesso pezzo.

Quando arriva la fine e si chiude anche “Last Night”, ballatona soul-glitch (che tanto ricorda la conclusione dell’ultimo lavoro degli LCD Soundsystem), viene proprio da sospettare che una notte con questa colonna sonora non sarà  forse l’ultima ma sicuramente è stata più di quanto ci fossimo immaginati all’aperitivo. Ci guardiamo inebetiti e sorridiamo, ancora non ci sentiamo di urlarlo… Ma bentornato Moby.

Credit photo: Uncensored Interview, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons