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Conti le parole che non hai mai usato per dischi come questo e ti resta un pugno di niente, stringi l’aria impassibile attorno alla tua mano e non potrebbe andare diversamente. Un disco così classico non ha bisogno di essere spiegato, non necessita di analisi approfondite per entrare nelle sfumature dei brani. Parte la prima canzone e ti ritrovi a pensare all’ultimo Ryan Adams, prosegui nell’ascolto e ciondoli allegramente nel bel mezzo di una strada del cuore della provincia americana. Poi varchi la soglia di quel pub un po’ lercio con l’insegna di legno dipinta a mano, alla tua sinistra qualcuno tira senza tropa convinzione delle freccette su un vecchio tiro a segno, intanto il jukebox sputa fuori “Harvest” di Neil Young che gracchia proprio come i vecchi vinile che credevi di aver dimenticato. Sei in un posto in cui ogni odore pare avere più di cent’anni, in cui l’ultima speranza di quel povero ubriacone al bancone del bar pare essere un vecchio pezzo di fumoso soul blues. Tutto il resto sono squarci di cielo ferito e che non ama piangere il suo dolore, sono le storie che si tramandano da generazioni, che mutano col tempo ma alla fine restano immobili. E tu con le mani impastate di resina segui l’andamento incerto del legno della veranda che bacia la collina, in quella casa che hai sempre sognato. Dischi così ne avrai sentiti centinaia e lo sai che continuerai a farlo, non sorprendendoti mai ma e allo stesso tempo lo consumi in rigoroso ed assorto silenzio compiaciuto. “Loaded” nasce vecchio qualche secolo ed è questo il bello, perchè non c’è sempre bisogno di novità . Inutile inseguire la chimera dell’innovazione, siediti al bancone, ordina una whisky e se sei astemio come me spendi una piccola fortuna in quel vecchio jukebox arrugginito, alla prima nota capirai che ne sarà valsa la pena. |
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