Mi chiedo a volte se la gente si stanchi delle solite cose. Se così fosse, un’etichetta come la Rough Trade non dovrebbe prendersi l’onere e il disturbo di pubblicare una band come i Mystery Jets. Invece di album come “Twenty One” ne escono un paio al mese da almeno tre anni e non se ne sente nemmeno parlar tanto male. Forse io sono un caso a parte, ma dischi come questo ormai finiscono con l’annoiarmi dopo pochi ascolti.
Proprio un paio di anni fa, su queste pagine si era parlato dell’esordio “Making Dens” come di una piacevole scoperta che non strizzava l’occhio alle mode del momento, ma affondava in esperienze di pop psichedelico e bucolico anche grazie all’apporto del cinquantacinquenne Henry Harrison, padre del cantante. Ora dimenticate tutto questo, anche perchè l’attempato signore non fa più parte delle line-up del gruppo, facendo planare il sound su un più sicuro brit-pop influenzato da sonorità anni ’80.
E’ un peccato disperdere le buone idee degli esordi in un suono ormai uguale a centinaia di altri gruppi, poco importa che in un brano ci sia la voce di Laura Marling e che la produzione sia affidata alle mani di Erol Akan (già al lavoro col secondo disco dei The Long Blondes), il risultato è appena sufficiente. C’è molto dei Maximo Park ma anche tanto del pop degli ’80, tra Blondie, Duran Duran e soci. Il classico disco buono per le serate indie dei locali, abbastanza cool da piacere ai ventenni con capigliature emo e ai giornalisti del NME. Poi vabè, il prossimo mese ci saranno altre due band uguali a questa e si ritornerà come in loop a chiedersi se la gente si stanchi mai delle solite cose. A seconda della vostra risposta a questa questione “Twenty One” potrebbe piacervi o meno. Siete stati avvisati.