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Impressionante: è la prima parola che mi è venuta in mente dopo aver ascoltato l’ultimo disco dei Duels. Il quartetto di Leeds alla sua seconda prova sulla lunga distanza, costruisce un muro di suono terrificante, venato di stupefacente melodia. Jon Foulger e company sono i custodi di una gigantesca cattedrale persa tra le rovine dell’ultimo Paese abitato del Pianeta, diroccata, sinistra, ma imponente come un monolite scolpito nell’oscurità . “The Barbarians Move In” è un cazzoto scagliato nello stomaco seguendo le strade deviate dei Radiohead, passando attraverso il rumorismo romanticamente ultra-sonico degli …And You Will know Us By The Trail Of Dead, imponendosi con la graniticità imperiale degli Jesu, non disdegnando finezze stilistiche à la Elbow e passaggi degni della pop-wave più raffinata tra i Can e gli I Love You But I Have Chosen Darkness. Se a ciò si aggiunge una non del tutto sopita vena atmosferica tambureggiante e percussiva in pieno stile Kasabian, il dado è tratto e l’universo in assetto col Bene Assoluto. Tutto ha un sapore allucinato, straniante ma pur sempre ricondotto nei biniari di una circolarità d’ascolto che ammalia e strega come il canto delle sirene; folk, rock, wave, noise, pop si impastano tra le labbra creando atmosfere sospese ed emozonanti come non capitava da un bel po’. Sembra di toccare con mano il terrore che scorreva negli occhi dei fanti sul fronte di Verdun, Francia 1916, dieci mesi di inferno incarnato sulla Terra, ad aspettare la morte invisibile che arrivava dai colossali cannoni, improvvisamente un macello sui corpi di una intera generazione spazzata via; eppure dalle lettere che quel manipolo di ‘inutili’ e splendidi eroi spedivano dalle loro trincee puzzolenti c’era uno sguardo di luce piena che a fatica cercava di spezzare la morsa del nero soffocante. Il romanticismo struggente di chi per davvero viveva ogni giorno come se fosse l’ultimo ritrova nella voce di Jon Foulger un rappresentante di commovente intensità . Paura e Speranza: le muse delle azioni umane si scontrano, molto più prosaicamente, nelle undici tracce di un album che viaggia a 100 metri da terra, in uno spazio popolato da pochi illuminati. Se in un primo momento si viene colpiti dalla mastodontica sezione ritmica guidata da James Kirkbright alla batteria, poco a poco si apprezzano le trame ipnotiche di chitarra e voce, che riconoscono come unico elemento di sopravvivenza la loro unione animalesca. La sensazione è che aleggi sull’album un soffio di tagicità imminente e che i quattro inglesi cerchino di controllarlo con una buona dose di sangue freddo e afflato mistico. L’aggiunta di violini in alcuni pezzi regala il tocco finale di bellezza imperitura ad un album che se non vi farà sobbalzare all’istante sulla sedia, avrà comunque assolto ad un compito: avrà constatato la vostra morte cerebrale. |
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