Amir “?uestlove” Thompson ha tre grandi passioni: collezionare scarpe (ne ha più di 900 paia, roba da far impallidire Paris Hilton), frequentare strip club e suonare la batteria. Con quest’ultima da oltre vent’anni rivoluziona il mondo del rap assieme ai suoi fidati Roots. Il combo di Philadelphia sta all’hip-hop come i Radiohead stanno al rock: suonare 50 metri più avanti dei luoghi comuni che soffocano i generi è il loro obiettivo primario.
Percussioni, chitarre, bassi mai domi, sintetizzatori ma anche voce, come quella di Tariq ‘Black Tought’ Trotter, l’altra parte della luna illuminata da parole taglienti, politicamente incisive, niente brillantini nè vuoti a perdere da dare in pasto a emittenti musicali cannibali. Storia da cattivo ragazzo quella di Tariq, strappato per i capelli ad una fine violenta, un miracolato considerando il curriculum familiare fatto di genitori uccisi e di un fratello che ha passato 27 dei sui 42 anni di vita in galera. Tutto questo background si riversa nel suo flow deciso, diretto, musicale, a tratti ipnotico.
Altra anomalia dei Roots è la loro longevità che sfocia in questo decimo album, ottavo di studio, prodigio di una continua ricerca, di una insaziabile voglia di suonare l’hip-hop con strumenti in pelle e metallo, bandendo trucchi da sala prove, mettendo sul piatto solo sperimentazione e sudore; dove Timbaland si nasconde dietro lo stesso sampler da anni, qui invece si va avanti a botte di elettricità percossa. Ne esce così fuori un disco ispirato, notturno, duro, compatto, in bilico tra l’essere colonna sonora di un pattugliamento per strade difficili e i mille pensieri che sorgono sconfitti mentre accompagnano luci giallognole che scorrono pallide tra cruscotti ed occhi marcescenti affogati in basi secche tirate a lucido da Thompson, qui in veste anche di produttore.
Numerosi ospiti ingioiellano ‘Rising Down’ senza appesantirlo, rendendolo al contrario il punto caldo dell’altro hip hop, dove se la cavano a meraviglia l’elegante Common, Saigon e l’ottimo Mos Def, a suo agio nell’aria spessa e claustrofobica di un album magmatico dove non sarebbe difficile imbattersi in vicoli immersi nell’oscurità liquida dei Massive Attack. L’anima soul rimane nascosta all’ascolto superficiale, ma batte forte tra i solchi di “Criminal” o di “I Can’t Help It”, due tra i pezzi migliori del disco.
Se il rap ha ancora un’anima ed una dignità da mostrare al mondo intero il merito, oggi, è in gran parte di questi ragazzi di Philadelphia, degni eredi della lezione dei Public Enemy e del ritmo nero e febbricitante di James Brown.
Cala la notte, si alza il volume, gli occhi s’induriscono, l’universo risuona in beat avvolgenti: fate spazio, entrano in scena i Roots.