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Premessa: mai recensione fu più ardua. Passare più di un mese ascoltando e riascoltando un disco alla spasmodica ricerca di una seppur minima emozione non è bene. Assolutamente no: rende cinici e rancorosi. E pensare che non faccio parte nemmeno della schiera che “i Kooks assolutamente no, chè sono solo l’ennesima next big thing lanciata da NME e affini e come tali vanno aborriti come il demonio”. No, no, a me il primo disco era piaciuto nella sua freschezza e leggerezza, nonostante i quattro Kooks in questione c’avessero la faccia di quelli che frequentano una scuola privata da svariate migliaia di sterline l’anno, di quelli che si fanno pagare gli strumenti e le lezioni dal papà e che decidono di mettere su un gruppo per rimorchiare dopo aver visto un video dei Blur o dei Supergrass o dei La’s o di qualsivoglia band dell’epoca d’oro del cosiddetto britpop. NdR: senza offesa per voi che leggete e magari vi ci identificate, in quelli che si fanno comprare gli strumenti dal papà , ma insomma, v’avevo detto che sono rancoroso e cinico o viceversa, quindi questa recensione potrebbe proseguire su questi toni. Ma la questione è che qui si dovrebbe parlare dei Kooks e di “Konk” e non delle mie paranoie: quindi parliamone. Il disco è innocuo e per lo meno non provoca conati di vomito o altri effetti collaterali. E’ già qualcosa, di questi tempi. Il disco è troppo innocuo, però: suona proprio come ci si poteva aspettare che suonasse. Dall’inizio alla fine ogni canzone è stucchevolmente prevedibile, non un fremito, non un colpo di coda, le ballate stracciabudella sono dove dovrebbero essere, i pezzi più tirati al posto giusto, tutto perfettino, tutto politically correct, tutto curato fino alla nausea. Ora non è che oggi io mi sia svegliato con la luna storta, o forse si, ma questo non è dato saperlo: il punto è che se uno mi dice di aspettarmi grandi cose dal suo prossimo disco, io poi un po’ ci credo, e ci resto male quando invece mi si propinano le solite chitarre pop acustiche tanto sbarazzine che sanno però di minestra riscaldata, dove per “minestra” leggasi “Inside In/Inside Out”. In una scena già sovrabbondante di cloni, mettersi a fare la cover band di se stessi non è quanto di meglio ci si possa aspettare. Non c’è molto da aggiungere: giusto un paio di canzoni sono sopra le righe (“Do You Wanna”, “Love It All”), il resto è di ordinaria amministrazione ben suonata e qualche sbadiglio di troppo… yawn…. zzzzzzzzz….. |
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