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Alzi lo sguardo e il cielo ha una consistenza decisamente troppo solida. E’ tinto di rosso e sembra quasi volersi sciogliere al calore di tre soli immobili sulla tua testa. Si, si sta letteralmente sciogliendo e grosse gocce dense cadono al suolo mentre qualcosa di simile ad un sottomarino giallo solca l’orizzonte lontanissimo. Sudi freddo. Pezzi di cielo simili a secchiate di vernice precipitano sempre più copiosi, abbattendosi su quello sterminato deserto che ti circonda. Vorresti correre ma sei immobilizzato. Al posto di quelli che dovrebbero essere cactus delle statue di marmo bianchissimo ondeggiano battute da una leggera brezza. Cerchi di concentrarti mentre gocce di sudore ti solcano la fronte. Deve essere un incubo: in Canada non ci può essere il deserto, e soprattutto non ci dovrebbero essere quei tre soli roventi. Se è per questo, in Canada non ci dovrebbero essere nemmeno gruppi come i Ten Kens. Qualcosa non quadra: quei quattro starebbero bene da qualche parte come la Death Valley, in un posto con un nome tipo Arizona o Texas, nelle lande sterminate della Sierra Madre, ma non nel freddo e sobrio Canada. L’esordio dei Ten Kens ha tutto il fascino di una corsa acida sotto peyote nel crepuscolo messicano o nei più remoti recessi degli States, tra carcasse putrescenti e bottiglie di Corona ghiacciata servite su banconi lerci di saloon dimenticati da Dio e da gran parte della razza umana. Rock malato e storto strafatto di mescalina, stoner e folk stuprato, frutto di giorni e mesi trascorsi a suonare ininterrottamente chiusi in una casa, vedendo raramente la luce del pallido sole boreale. L’atmosfera oscura che pervade l’intera registrazione si scontra e si amalgama perfettamente con gli echi della West Coast, e quel che ne esce fuori è una miscela lisergica, un rock sbilenco e denso come fango. I Ten Kens ergono poderosi muri di suono (“Bearfight”), si lanciano in cavalcate psycho-folk (“Downcome Home”, “The Alternate Biker”), si cimentano in pezzi alla Weezer (“Prodigal Sum”, “Worthless and Oversimplified Ideas”) e in ballate oniriche (“Y’All Come Back Now”) senza allentare mai la tensione o mostrare segni di cedimento. PS: si ringraziano Mr. De Chirico, Mr. Magritte e la peperonata per aver ispirato la prima parte di questa recensione sbilenca. |
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