A cavallo tra gli ’60 e gli anni ’70 tra incendi rock’n’roll e abrasioni blues, si ritagliò un consistente e rispettabile spazio un influente revival folk. Molti i nomi maschili che segnarono quegli anni, imprimendo poi un indelebile marchio su quelli a venire. Troppo spesso, però, si dimenticano gli splendidi apporti rosa dati al movimento in particolare ed alla musica in generale.

Tra le tante donne che imbracciarono una chitarra andandosene in giro per gli States, vale la pena ricordare la tragica parabola di Karen Dalton, classe 1938, nativa dell’Oklahoma, profonda provincia rurale americana. Una voce splendida, bruciata dal sole e dall’alcool, in bilico tra i marosi acidi di Janis Joplin ed il nitore di Billie Holiday, Karen navigò tra folk, blues, atmosfere Motown, r’n’b sofferto che ricorda Sam Cooke ed Hank Williams, riscaldando e conferendo un segno profondissimo tra i cantautori a lei contemporanei. Bob Dylan ha detto: La mia cantante preferita in assoluto è stata Karen Dalton. Karen aveva la voce come Billie Holiday e suonava la chitarra come Fred Neil.

Registrato nel 1971 presso gli studi di Bearsville, vicino Woodstock, “In My Own Time” fu il suo secondo ed ultimo disco, dieci canzoni di profonda ispirazione soul, magistralmente suonato da una band che arrivava a comprendere fino a 14 elementi, un piccolo carillon sospeso tra chitarre, banjo – di cui era un’eccellente suonatrice – pedal steel, violini e bassi spessi, fumosi, percussivi al limite della saturazione. La Dalton si ritaglia il ruolo da protagonista, gigioneggia con l’ugola graffiante, maliziosa e morbida che si ritrova, si cimenta in una stralunata cover di “When The Man Loves A Woman” di Percy Sledge, suona “In The Station” – canzone che le verrà  successivamente dedicata dalla Band -, si fa produrre da Harvey Brooke, già  bassista di Bob Dylan e nel frattempo consuma se stessa immergendosi totalmente in un mondo fatto di droghe e abuso di alcool. Il folk acido, sgarbato, poco incline ad irrigimentarsi in dogmi ufficiali, fu lo specchio della sua irrequieta esistenza, votata alla ricerca della libertà , ma risoltasi in una schiavitù ancor più feroce.

Stimata a gran voce da Nick Cave, Devendra Banhart e Moltheni – il quale le dedicherà  il suo ultimo disco “I Segreti Del Corallo” -, Karen Dalton non riuscirà  mai ad uscire dal gorgo infernale della schiavitù tossica, che la porterà  alla povertà  – visse gli ultimi anni della sua vita da homeless – e ad una morte prematura nel 1993.
Aveva 55 anni.