Abile e scaltro, Danny Boyle sopravvive nella storia del cinema esattamente come il suo protagonista Jamal riesce a tenersi a galla nella rampante Mumbai: con molto fiuto e tanta fortuna, che sono poi le doti necessarie dei predestinati.
La sua pratica non è certo priva di talento, ma da quando esplose ai tempi di “Piccoli Omicidi Tra Amici” e “Trainspotting”, è rimasta più o meno lo stessa: quella di un pubblicitario, affascinato dall’estetica dei videoclip degli anni ottanta, e a tratti vagamente onirico. Con questo retaggio patinato, autoriale ma non troppo, Boyle è sbarcato nella terra di Bollywood assimilandone i linguaggi ancora sconosciuti al pubblico occidentale, e li ha portati con una gradevole confezione al pubblico dei grandi festival europei ed americani.
“The Millionaire” è forse il primo grande esempio di fusione tra il melodramma tipico del cinema indiano – la più grande industria di film del mondo – e l’astuzia europea, fatta qui di ammiccamenti estetici e denunce umanitarie: il risultato finale è stato confezionato con perizia ed è ovviamente piaciuto, tanto da farlo diventare uno tra i titoli più richiesti delle rassegne internazionali.

Effettivamente, i modi di fare di Boyle sono meno fastidiosi che in passato, probabilmente travolti dall’urto di una passionalità  che negli studi di Mumbai è di casa, ma che dalle nostre parti è ormai relegata (con analogo successo, ma con scarsa considerazione critica) ai serial e alle soap-operas. Davanti all’India, subcontinente dalle innumerevoli e sconfinate possibilità  poetiche – si pensi a come modificò radicalmente le prospettive di Roberto Rossellini – l’occhio di Boyle appare poco toccato e poco propenso a lasciarsi coinvolgere dallo stupore.

Forse perchè il paese che vorrebbe raccontare è cambiato, certo: non è cambiata però la volontà , del tutto accessoria e falsata, di dare testimonianza delle sue mutazioni. La tragica infanzia di Jamal – cresciuto nella più squallida baraccopoli della New York indiana – ha poco di realistico: sembra piuttosto un pretesto narrativo, solo in parte esorcizzato dall’ironia.
La forza di “The Millionaire” è infatti da ritrovare non nel suo ritratto di costume e nella sua poco convincente indignazione, quanto piuttosto nella prepotente affermazione della vitalità  di Bollywood, ancora piacevolmente ferma ai canoni drammatici di quella che un tempo poteva essere la Hollywood degli anni Trenta.

Lo sceneggiatore Simon Beaufoy – lo stesso di “Full Monty” – non è nuovo a storie simili, giocate sul riscatto di una miseria in cui le cause sociali perdono la loro forza in nome di una catarsi legata al mito del successo e della forza di volontà . Quindi, la regola è chiara, e più l’ascesa è sormontata da ostacoli all’apparenza insormontabili, più l’impresa sembra impossibile, e più il finale assume un tono liberatorio e confortante.
In questo caso, l’invadenza estetica di Boyle si attenua, cerca di resistere (o forse fa solo finta di farlo) alla fascinazione di un intreccio che nelle sue linee generali prende il pathos travolgente delle vecchie storie: il miserabile orfano che si scopre eroe, il presentatore invidioso, il ricco cattivo, il servo sciocco (il grasso, impacciato ed idiota aiutante della polizia), il fratello che fa da tramite tra i due mondi, la bella da conquistare. In “The Millionaire” queste figure tipiche di ogni rappresentazione – dagli albori del teatro ad oggi – esplodono in tutte le loro capacità , liberando un potere di affabulazione fortunatamente duro a morire.
L’occhio di Jamal che osserva, ama e desidera la sua Latika è più forte di ogni difficoltà , e dimostra ancora una volta – e sembra che ce ne sia sempre bisogno a sufficienza – quanto poco ci voglia a fare un film indimenticabile.