C’è una sottile analogia tra la carriera politica di Harvey Milk e quella cinematografica di Gus Van Sant: quella dell’outsider che entra nell’establishment contro ogni previsione.
Se uno strepitoso Sean Penn varca la soglia della City Hall di San Francisco dopo essere stato tra i più grandi e scomodi attivisti politici della città , il regista – premiato ovunque, ma mai dall’Academy – probabilmente quest’anno si presenterà sul palco del Kodak Theatre con qualcosa di prezioso in mano.
Si sa che per far colpo e portarsi l’Oscar (il film si presenta alla serata con otto candidature), bisogna ritrovare la passione: per la prima volta nel suo cinema, Van Sant non ha sfoggiato uno sguardo solo partecipe, ma ha investito il suo protagonista di un’affettività che gli si credeva estranea.
Così come del resto entrambi si rendono conto di come sia difficile resistere alla naturale ambiguità nascosta nell’essere all’interno del sistema piuttosto che fuori: se Milk fa togliere il suo manifesto radicale (Milk vs. The Machine), sporcandosi le mani con l’arte del compromesso, semba che il regista sappia perfettamente il rischio che si corre a fare un film accettato da tutti.
“Milk” non è poi molto lontano dai suoi film precedenti: si parla sempre di emarginati, di persone che restano ai margini della società faticando, lottando con ogni forza per esserne inclusi. Oltre ad essere la cronaca fedele della vittoria sul pregiudizio, il suo film è anche il tragico resoconto dell’esclusione: ma a differenza di altri film in cui la simpatia di Van Sant per i suoi emarginati era filtrata da una sorta di giusto distacco, di uno sguardo volutamente lontano dal dramma classico (la maschera impassibile del protagonista di “Paranoid Park”), in “Milk” il cineasta di Portland viene completamente affascinato dalla figura del suo protagonista, forse inevitabilmente trascinato da un Penn incontenibile e debordante, dalla sua vitalità , dalla sua ostinazione e dai suoi sentimenti.
Questa volta, non mancano scene madri in piena regola, e scene di massa che contrastano apertamente con il consueto intimismo a cui Van Sant ci aveva abituato. Soprattutto, con “Milk” sembra sensato iniziare a parlare di ‘obamismo’: di una riscoperta di personaggi che in passato si sono battuti per un ritorno alla natura americana della partecipazione alla politica dal basso, di un ritorno ai diritti civili, e non è certamente un caso che le parole pronunciate più spesso dal protagonista siano ‘change’ e ‘hope’, quasi che l’incredibile esperienza delle recenti elezioni sia riuscita a smuovere anche uno scettico come Van Sant.
E lo script di “Milk” sembra la storia giusta per l’uomo giusto: il suo eclettismo lavora in favore di un film che mischia linguaggi (i Super8 originali e quelli ricostruiti, le vere immagini di repertorio con quelle ricostruite) come nei migliori esempi di impegno civile alla Oliver Stone, la sua abitudine alle storie di outborder (l’omosessualità latente degli assassini di “Elephant”) fa in modo che i baci, i momenti di intimità , e la passione tra James Franco e Sean Penn non diventino oggetto di cronaca, non siano il film, ma solo un suo momento, che cerca di evitare (eppure lo fa) che tutto diventi un velleitario strappo con le convenzioni.
Eppure, la grandezza di Van Sant non gli impedisce di mettere delle firme percepibili, pure in una storia che procede con una linearità a lui insolita (ma non per questo meno gradita): l’ostilità di genitori che non si vedono mai (la telefonata del ragazzo sulla sedia a rotelle, la cui conversione sembra la confessione stessa di Van Sant, o di un cinema che ha fatto pace con l’autorità ), o nel titanico personaggio di Josh Brolin ““ senza un progetto, e così frustrato nella ricerca di averne uno! ““ che nel freddo epilogo ritorna ad atmosfere a lui più vicine (ancora, il lento e teso incedere per i corridoi di un edificio…), di un’azione da compiere senza particolare enfasi.
Il dramma però questa volta c’è, come dimostra il richiamo alla tragedia e al personaggio di Tosca (di cui Milk è un avido cultore), il pianto straziato con cui l’uomo raccoglie il suo amante, sacrificato a qualcosa di più grande.
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