Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo
Il fallimento di una glorificazione, la glorificazione di un fallimento.
“The Wrestler” è corpo. Sa di sudore e sangue. Corpo-corpse di Mickey Rourke, ingrossato di 15 chili in sei mesi per dar vita al beautiful loser Randy “The Ram” Robinson.
L’ex bello di “9 Settimane e ½”, dopo il lungo naufragio a base di droga e alcool lontano dagli schermi, torna sul ring per regalarci il suo ultimo match col cinema.
In pieno declino esistenzial-estetico Rourke/”The Ram”, vecchia gloria del wrestling anni ottanta, vive-sopravvive esibendosi in piccole palestre del New Jersey.
In quel vuoto di solitudine che è la sua esistenza, la sola persona con cui trova qualcosa di vicino all’intimità è Cassidy/Pam, spogliarellista in marcia sul viale del tramonto.
Colpito da infarto dopo uno scontro sul ring, per Randy sarà il momento della scelta: fare ammenda degli errori di una vita o andare fino in fondo, mano nella mano al proprio sogno.
Non c’è giudizio nello sguardo di Aronofsky.
La compassionevole vicinanza del regista verso i suoi protagonisti si declina nell’uso della camera a mano che restituisce soggettive ravvicinate, sgranate, reali.
“The Ram”, ariete da macello, e Cassidy/Pam, donna in svendita, altro non sono se non la medesima immagine speculare e peculiare del declino.
The Ram, l’ariete sotto il peso di troppi colpi e della svanita gloria decade, mentre Cassidy sfiorisce nella solitudine di un sogno di normalità che mai (più?) le apparterrà .
Anche la loro seduzione è lotta senza vincitori.
Si fronteggiano in un magnifico balletto d’attrazione-repulsione nella quale si cercano, si annusano e infine fuggono consapevoli del compromesso che vicendevolmente rappresentano.
Se il corpo di Cassidy come un vecchio abito sdrucisce, perde colore ogni giorno di più, è proprio in un negozio di vestiti di seconda mano che lei accompagna Randy nello strenuo tentativo di fargli ritrovare una paternità abdicata e la gioia dell’amore che è dare.
Nella sequenza del negozio eufemisticamente vintage si riassume l’essenza della personalità di Randy, che non conosce generosità se non attraverso l’egoismo.
Se Cassidy (la magnifica Marisa Tomei) pensa ai gusti della mai vista figlia di lui per comprarle un regalo, Randy si getta su un abito feticcio che, nel gioco del “se fossi un vestito cosa saresti” incarnerebbe appieno The Ram e di certo non la figlia.
In questo film quasi da neorealismo americano la figura del padre e della madre, dell’uomo e della donna, sono portate alle estreme conseguenze attraverso la rappresentazione del corpo.
Tanto è massiccio e animalesco lui, tanto è leggera e femminile lei. Quanto è egoista Randy, seppur con i migliori intenti, tanto è generosa Cassidy, che pur di garantire un futuro al proprio figlioletto s’immola in un sacrificio che la vede svendersi a un branco di ragazzini urlando le proprie doti come un pescivendolo alla fine del mercato.
Perchè “The Wrestler” è un film sull’essere attraverso l’apparire, nel momento in cui l’apparenza cede e lascia scoperti.
Il sangue, la carne di Randy, ricucita, riattaccata con la colla come un vaso rotto e ancora i seni e le natiche di Cassidy/Pam, altro non sono che la maschera di anime che non hanno voce ma un involucro proteico che cela un cuore malato, pulsante per brevi istanti in tempi sbagliati quando la musica (quella degli anni ottanta) è finita da un pezzo.
Nulla si cela, nulla si nasconde in una nudità che è abito di scena, contenitore e contenuto. Un film fatto di empy shells quindi, di stanze vuote, occasioni mancate, riassunte dalla sequenza in cui Randy, danza con la figlia nel grande capannone vuoto, un tempo luogo di una felicità dimenticata.
La visione in apparenza nichilista d’Aronofsky è al contrario prospettiva che restituisce al fallimento un significato ultimo a ciò che l’essere umano spesso non sa o non può combattere: la propria natura.
C’è coraggio a farsi aprire in due, restare fedeli a se stessi, senza compromessi.
Fedeli ed innamorati della propria immagine fino ad annegarci dentro, per tornare a nuotare come magnifiche sirene, a metà tra il mito e l’umano, tra il mostro e l’asceta.